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Franciscu Sedda L’imprevedibile accade. Milano, Bompiani, 2025.
Publié en ligne le août 2025
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Introduzione L’imprevedibile accade. E sconvolge le nostre esistenze. Profondamente o per un solo istante. In modo inavvertito o plateale. Nel bene o nel male. L’imprevedibile accade. Altre volte non accade ma sembra accadere. Viene evocato, esaltato, temuto, pur senza essere accaduto. Altre volte ancora lo si attende, lo si spera, lo si cerca, lo si finge. Pur di dare nuovo senso a un’esistenza che scorre via così inavvertitamente da non avere né significato né orientamento. Fin quasi da sembrare immobile. E poi invece, magari dove e quando meno ce lo aspettavamo, l’imprevedibile accade. Mentre eravamo impegnati in altro, l’imprevedibile arriva e ci strappa via dalla monotonia del quotidiano aprendoci a una sinfonia dei sensi. E quando accade sembra essere pura vita, sembra essere la vita stessa, tutta intera, l’unica che valga la pena di essere vissuta. Altre volte, invece, arriva indesiderato. Sconvolgente, come un fatale incidente, come un’epidemia collettiva, come un attentato all’esistente. Eccolo, l’imprevedibile da cui fuggire, da esorcizzare o contenere. L’imprevedibile della catastrofe dolorosa, della crisi inaspettata, della morte improvvisa e insensata. O anche, semplicemente, del tradimento, della delusione, della disillusione. L’imprevisto accade. E ci tormenta. E se fosse stato prevedibile ? Non si poteva prevedere ? Non si poteva davvero fare nulla per evitare il maledetto imprevisto ? Altre volte non accade, e per questo viene sognato, atteso, desiderato. L’imprevedibile dell’occasione colta, di una passione nascente, di un amore nuovo o continuamente rinnovato. Quando arriverà ? Perché non è più ? Sono certo che accadrà. Ah ! se fosse ancora, se potesse essere nuovamente ! L’imprevedibile ci può perseguitare. Come un fantasma che abita la quotidianità. L’ipocondriaco che vive con la paura della malattia, il timoroso che rinuncia alla vita per paura della morte, o il giocatore perseguitato dal desiderio di una vincita clamorosa, il fanatico che aspetta un’improvvisa, totale, redenzione del mondo. L’imprevedibile ci può stregare. Come una droga che mai ci basta e che piano piano ci allontana da una realtà fattasi insopportabile, da un’esistenza troppo faticosa per essere cambiata veramente. Novità da rincorrere incessantemente. Intensità da consumare avidamente. Frattura senza ritorno. Esplorazione senza possibilità di racconto. Deriva in uno spaziotempo non più condivisibile. Difficile convivenza, quella con l’imprevedibile. Eppure, necessaria. Inevitabile. Presente anche dove non la si attende. Nelle infinite fratture e rinascite del senso. Piccoli grandi momenti in cui il senso rinnova se stesso, in cui ritrova e ridà nutrimento. Una creazione che ci desta dal torpore, un’ignoranza che ci costringe a pensare, un impegno quotidiano che cambia inavvertitamente il mondo. Incrementi, aggiustamenti, esplorazioni, esperimenti. L’imprevedibile accade in molte più forme di quanto siamo soliti pensare. L’imprevedibile, a volte, va fatto accadere...
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Come affrontare questo imprevedibile diffuso e onnipervasivo ? Ci proveremo in tre passi, che brevemente anticipo per lasciare ai lettori una mappa e una bussola per orientarsi nella tempesta che ci accingiamo a descrivere e comprendere meglio. Raccontare l’imprevedibile segna l’inizio dell’esplorazione. è un invito al viaggio e ad addentrarsi insieme in un campo complesso, un campo aperto. è un principio di chiarificazione dei molti modi in cui l’imprevedibilità si crea e ci crea; dei molti modi in cui il nostro è un mondo grande e imprevedibile. E lo è tanto più perché, come mostreremo fin da subito, questo scorcio di XXI secolo sottopone i nostri vissuti a tendenze estreme all’aleatorietà e alla programmazione, che finiscono per fare cortocircuito. Per questo proporremo concetti e visioni per ridefinire il nostro sguardo, la nostra sensibilità, il nostro linguaggio al fine di imparare a convivere con il senso di imprevedibilità che permea il nostro tempo ; operazione che può riuscire solo cogliendo la peculiare intelligenza dell’imprevedibile, soppesando l’effettiva portata del suo impatto, illuminando tanto i rischi quanto gli aspetti positivamente creativi della (sur)realtà in cui siamo immersi e, talvolta, persi. Vivere l’imprevedibile è proprio questa immersione nell’imprevedibilità, per sondarne la presenza in più campi dell’esperienza e della conoscenza. Per farlo “taglieremo” e “riassembleremo” il mondo in maniera originale, in modo che l’imprevedibile ci si manifesti, si faccia sentire, in tutta la sua spaesante potenza. Lo faremo chiamando in causa piccoli e grandi eventi che premono sui nostri corpi, fenomeni disparati e intrecciati che danno vita a grandi correnti e sentimenti d’imprevedibilità : vita, morte, creazione, errore, nuovo, crisi, cambiamento, incertezza, apertura, azzardo, scoperta, fluidità, rivoluzione, stranezza, eccezionalità, incidente, miracolo, caso / caos. Dietro ciascuna di queste figure si cela una qualche forma di imprevedibilità che va saputa leggere nella sua specificità. Dalla politica alla scienza, dai media all’innovazione tecnologica, dall’economia al clima, dalla religione alla vita quotidiana : l’obbiettivo è cogliere le im- plicazioni incrociate, le contraddizioni velate, i dilemmi etici, le potenzialità inespresse di questa presenza dell’imprevedibile che dalle profondità del cosmo arriva alla nostra vita di tutti i giorni passando per il nostro ambiente fisico e sociale. Pensare l’imprevedibile è la sezione che più si avvicina a una dimensione teorica. Tuttavia, anche qui, lo si farà in forma di avventura e mobilitando casi ed esempi che mentre ci consentiranno di validare gli strumenti che andremo forgiando e proponendo ci terranno anche costantemente ancorati ai vissuti concreti, facendoceli percepire nella loro quota d’imprevedibilità. Occasione per imparare a tenerla sotto controllo, ma anche per riscoprire il gusto per l’imprevedibile che si annida nelle infinite opere e pieghe della realtà. Nel capitolo Fratture ed esplosioni si ripartirà da una complementarità non percepita fra le opere-testamento di Juri Lotman e Algirdas Greimas, due dei grandi padri della semiotica, per mostrare come attraverso l’imprevedibile si produca un nesso fra il caso e il sacro, che innerva in profondità le nostre esistenze. Il capitolo Fra il caso e la programmazione mostra come uno sguardo in dettaglio sull’imprevedibilità ne faccia emergere le sfumature interne : l’arte e la storia, ad esempio, non esplodono sempre allo stesso modo, con la stessa intensità, con gli stessi effetti. Ne risulterà il quadro di una realtà imprevedibile proprio perché attraversata continuamente da differenti regimi di senso e modi di interazione : quello della programmazione, della manipolazione, dell’aggiustamento, dell’alea, con la loro spinta a vedere e produrre il mondo come collezione di oggetti-programmi, intenzioni-strategie, sensibilità-ritmi, presenze-forze. Nel capitolo Turbolenza : un altro modo di esplodere e creare mostreremo come al grande modello dell’imprevedibile come frattura-esplosione se ne possa affiancare un altro che non si basa sull’incontro-scontro fra sistemi diversi : la turbolenza infatti lavora all’interno del sistema, esplorandone i vuoti, ripiegandosi sulla sua stessa complessità, fino a generare un’effervescenza di potenzialità e la realizzazione “non distruttiva” dell’imprevedibile. A questo punto il passaggio sarà aperto per provare a sondare il cuore ritmico dell’imprevedibilità, quella dimensione che si affaccia ogni volta che si cerca di cogliere il rapporto fra il caso e il caos, e che ci può dire tanto sia sui grandi modelli delle culture che orientano il rapporto con l’imprevisto quanto sulle creazioni di genio che quell’imprevisto lo materializzano. I ritmi dell’imprevedibile rilancerà dunque, per un’ultima volta, la nostra esplorazione mentre cerca di individuare una matrice ritmica profonda che spinge l’analisi dell’imprevedibile su limiti tanto estremi quanto fondamentali. Interazioni molteplici (Extrait de la 3e partie, “Pensare l’imprevedibile”). Proviamo a chiudere questa esplorazione delle sfumature e delle articolazioni interne al campo di tensione fra imprevedibilità e prevedibilità, fra caso e programmazione, identificando meglio le diverse dimensioni che convivendo creano l’instabilità del nostro mondo. Per farlo ripartiamo da quello che è stato storicamente il regime centrale della semiotica strutturale al suo sorgere e quello che, come umani, ci viene più facile auto-assegnarci : la manipolazione. Al di là del termine utilizzato per definirlo questo regime ha al suo cuore un meccanismo semplice : un attante cerca di “far fare” qualcosa ad un altro attante. In questa relazione in gioco c’è un’azione (volere, desiderio, disegno, progetto) in vista di un obbiettivo, che in semiotica viene generalmente definito Oggetto di Valore. Di qui anche la facilità con cui questo regime è stato ricondotto ad un tipo di intenzionalità forte nonostante il Soggetto sia in realtà una funzione astratta e può essere svolto da qualunque entità, individuale o collettiva, reale o immaginaria, umana o non umana, che si trovi a “far fare” qualcosa ad un’altra entità. Si pensi alle infinite pratiche e narrazioni in cui a “fare qualcosa” (o a “farci fare” qualcosa) è un’entità dai contorni sfuggenti : dalle sirene che tentano Ulisse al popolo che si solleva, dal “lo vuole Dio” a “l’industria richiede più investimenti”, fino ad arrivare alla spia dell’auto che con la sua insistenza ci fa mettere la cintura. Le stelle in cielo sono tante — e secondo qualcuno anche quelle ci fanno fare o non fare cose — ma anche gli attanti in questo mondo abbondano. In questo quadro classico, che da più parti nel tempo è stato messo in discussione, assume peso l’interazione strategica e prevale l’idea di poter prevedere / orientare il corso dell’azione, anche anticipando la strategia altrui inglobandola nella propria, attraverso ipotesi predittive. Le prime puntate della famosa serie La casa di carta rappresentano questo gioco in modo molto potente, con uno dei due attanti “sempre un passo avanti” rispetto alle mosse dell’altro, quasi da dare l’impressione di aver programmato così bene le proprie manipolazioni da non aver lasciato spazio alla strategia altrui. Cosa che ovviamente verrà messa in discussione da tutta una serie di fattori imprevedibili. O prevedibili ma comunque incontrollabili : che Tokio con il suo carattere peperino avrebbe fatto “casini” era nelle cose, no ? |
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L’idea di strategia, intesa come modello di cambiamento del mondo a cui la realtà si deve piegare o adeguare, ha una lunga storia occidentale, che affonda nel pensiero greco e ha un classico snodo nel pensiero di von Clausewitz1. Tuttavia non c’è bisogno di richiamare la guerra per enfatizzare la dimensione “polemica” della relazione manipolatoria : guardare le interazioni dal lato della manipolazione significa enfatizzare l’aspetto conflittuale, competitivo, anche se si sta trattando di una conversazione. O di un flirt ! Di qui il rischio connaturato a questo tipo di interazione : quello che Landowski chiama “il passo falso”, la mossa che manda a monte il piano o che distrugge la credibilità del manipolatore. Perché la manipolazione riesce finché, pur dentro un quadro polemico, si stabilisce o conferma una qualche forma di fiducia di fondo fra le parti in causa. Ora, ciò che va notato, è che se ci si allontana dalla centralità del Soggetto e dell’intenzionalità entra in crisi anche l’idea che gli è strettamente correlata, quella di Oggetto di Valore. L’ambivalenza contenuta in questo concetto-chiave esplode rivelando con nettezza una doppia anima : quella dell’oggetto e quella del valore. Focalizzare questa scissione ci consente di comprendere meglio la diversità di interazioni in cui possiamo trovarci immersi e dunque le diverse gradazioni del nesso prevedibilità-imprevedibilità. Prendiamo dunque la manipolazione, ricordando che in essa un’entità in posizione di autorità (il così detto attante-Destinante) opera strategicamente per “convincere” chi è in posizione subordinata (un attante-Destinatario) a perseguire un valore. Focalizzando la doppia anima che si agita dentro l’Oggetto di Valore ci si rende conto che nella manipolazione la dimensione oggettuale passa in secondo piano, si fa strumentale, e il valore diventa (prevalentemente) una qualità semantica astratta : l’attante-Soggetto instaurato dalla manipolazione riuscita, se cerca “oggetti” concreti — i soldi, un auto, una casa, un partito, un partner, un’arma, un libro — lo fa solo in quanto questi sono i depositari dei “valori” — la libertà, la salute, la protezione, il prestigio, il fascino, il piacere, la forza, la conoscenza ecc. — con cui mira a congiungersi. All’inverso, a livello di programmazione il valore tende a scomparire e ciò che resta è (prevalentemente) l’oggetto. Nella programmazione, venendo meno dei veri e propri Soggetti, tutto si oggettifica. Esseri viventi compresi. Siamo davanti ad un regime oggettuale e oggettivante. In esso il valore sparisce o, se si preferisce, si “cosifica” : si riduce agli oggetti (con i loro elementi costitutivi, oggettivamente individuabili) e alle loro regolarità di funzionamento. Tanto che la logica propria di questo regime è vista non più come una giunzione (congiunzione / disgiunzione rispetto a un valore) ma come un agencement, un assemblaggio / concatenazione fra oggetti, che attivano algoritmi comportamentali e/o materiali come quelli che abbiamo visto parlando di attanti i cui programmi rispondono alle regolarità della tradizione o della fisica. |
1 Cfr. Fr. Jullien, Traité de l’efficacité, Paris, Grasset et Fasquelle, 1996. |
La programmazione ha una sua propria logica, quella dell’operazione : “Si tratta di una logica centrata non sulla circolazione e appropriazione degli oggetti ma sulla loro produzione o, naturalmente, la loro distruzione”2. Il passaggio è utile ma va disambiguato, perché sia in riferimento alla circolazione che alla produzione / distruzione Landowski parla sempre di “oggetti” : ma mentre nel primo caso questi oggetti sono tali solo in quanto portatori e depositari di valori astratti che possono essere fatti circolare (si pensi al diffondersi del senso di “libertà”), nel secondo caso stiamo parlando di cose in tutta la loro matericità (foss’anche la matericità fatta di numeri, energia elettrica e interfacce grafiche) che possono essere costruite o disgregate. Ovviamente anche questo regime, apparentemente il più prudente, non è esente da rischi : Landowski in questo caso parla di “manovra errata”, come quella che in una catena di montaggio fa saltare la prevista concatenazione di azioni, che dovrebbe portare al risultato e al buon funzionamento dell’oggetto (quante volte davanti a un pezzo di IKEA che manca o al nostro montaggio del mobile che “non torna” ripensiamo ai “passaggi” che hanno prodotto l’errore ?). Di fatto nella programmazione ogni parte (umana o non-umana) si comporta come un ingranaggio e qualunque tipo di errore rischia di inceppare il programma, o di modificarne l’operatività al punto da impedire il raggiungimento dell’esito atteso. No, con nostra somma frustrazione, il mobile che è venuto fuori non è quello disegnato sulla prima pagina delle istruzioni o prospettato all’inizio del tutorial ! |
2 E. Landowski, “Complexifica- |
Ribadiamolo. Quando parliamo di questi regimi-logiche stiamo parlando di dominanze perché nessun regime di interazione si presenta “in purezza”. E non bisogna nemmeno farsi ingannare dai termini “tecnici” che usiamo. Chiunque conosca un buon programmatore sa che il coding non è necessariamente riconducibile al regime (semiotico) della programmazione, dato che può essere praticato in forma creativa e che in generale mette in gioco sensibilità e scelte strategiche per arrivare ad un risultato efficace. Davanti ad un’esigenza / problema il “programmatore” si trova a disposizione dei modelli di progettazione, dei pattern preconfezionati fatti di oggetti e di relazioni fra gli oggetti stessi. Non sempre però la loro applicazione avviene o può avvenire in modo automatico (“programmato”, appunto). Spesso essa richiede una capacità di astrazione che consente di vedere omogeneità fra esigenze e ambiti problematici fino a quel momento ritenuti distinti e distanti. La capacità di vedere una nuova applicabilità di un modello dato richiede dunque un misto di immaginazione e sensibilità. Per non dire della possibilità di trovare una soluzione ad hoc per un problema specifico, che richiama una sorta di arte dell’improvvisazione ancor più radicale, da cui potrebbe sgorgare una soluzione imprevista, nuova, da cui nel tempo potrebbe derivare un nuovo modello di coding che qualcuno, magari, applicherà automaticamente3. Questa dinamica avviene anche a livello macroscopico. Esemplare è la vicenda di Nvidia che a inizio degli anni 2000 si chiede come utilizzare le sue schede grafiche, sviluppate per i videogiochi, in nuovi ambiti, a partire da quelli legati all’ambito scientifico (fisica, meteorologia ecc.). Questo lavoro di “riprogrammazione” — che ha molto più dello strategico che del programmatorio, in senso landowskiano — la porterà ad essere leader mondiale nel computing con intelligenza artificiale4. |
3 Grazie a Pierangelo Caboni, che mi ha messo a disposizione le sue competenze e sensibilità di programmatore. 4 Questa vicenda è al centro di A. Aresu, Geopolitica dell’intelligenza artificiale, Milano, Feltrinelli, 2024. |
La domanda che ci si deve porre a questo punto è quali sono le dimensioni costitutive dei regimi di interazione tese verso l’imprevedibilità. Nel caso dell’aggiustamento il posto dell’oggetto di valore è preso dalla valenza, intesa tanto come tensione (sensibile e in divenire) verso l’altro quanto come esplorazione e costituzione di una fiducia — un valore dei valori — che si esprime prima di tutto in forma inter-estesica, contagiosa. Come quando ci si trova bene in un locale perché si entra in sintonia con la sua atmosfera ; quando la mattina troviamo (o a volte non troviamo) la canzone giusta per il nostro umore e per le sfide che ci si parano davanti ; quando ci lasciamo prendere da una discussione con una persona piuttosto che con un’altra perché la sentiamo “a pelle” più interessante o perché, più ancora di ciò che dice, ci intriga lo “stile” dell’argomentazione e dell’interazione che ci propone. In generale, abbiamo contagio / adesione quando le nostre prese e valutazioni del mondo, dell’alterità, sono mosse non dal riconoscimento di “segni” già codificati ma da un “far senso” radicato in giochi analogico-figurativi in divenire, di cui non siamo necessariamente coscienti, di cui siamo poco o nulla cognitivamente in controllo. Questo modo di fare, notava Paolo Fabbri, è al cuore anche della scoperta scientifica : nel corpo a corpo fra lo scienziato e la materia con cui si confronta, le pertinenze più ostiche si rivelano spesso attraverso metafore narrative, ovvero “esperimenti di pensiero” che generano analogie inattese attraverso la formulazione di storie5. Si pensi a come la comprensione dell’organizzazione e del funzionamento delle basi azotate nella molecola del DNA sia debitrice del vederle e raccontarsele, al contempo, come una cerniera (che consente alle due eliche di separarsi durante la replicazione) e una scala a chiocciola (con i gradini formati dall’appaiamento delle basi). O come il cambiamento nella conoscenza dell’atomo equivalga al passaggio da una metafora, quella del pianeta con dei satelliti che gli girano attorno, a un’altra, quella del bigliardo dove tante palle cozzano una contro l’altra. Per non semplificare eccessivamente l’intero quadro bisogna quantomeno distinguere fra due tipi di sensibilità. La sensibilità percettiva, più aperta all’esplorazione sensibile delle cose ; la sensibilità reattiva più segnata da forme di adattamento o persino da automatismi della sensazione, che magari sono proprio il risultato del consolidarsi di quella che inizialmente era una sensibilità percettiva : anche il cane prima di reagire automaticamente — magari sbavare come con il famoso fischio nell’esperimento di Pavlov — ha passato una fase di addestramento della sensibilità, che da percettiva si è fatta infine reattiva. Noi non siamo del tutto diversi — già Saussure diceva che l’apprendimento del linguaggio è in buona parte “addestramento” — ma ci viene difficile ammetterlo. Così come ci scordiamo che anche la sensibilità reattiva più consolidata, fattasi quasi regolarità, può infrangersi d’improvviso. Si pensi alla bella scena di Lost in translation in cui Bill Murray non ritrova i suoi schemi percettivi in una stanza di hotel a Tokio. Basta entrare in un’altra doccia, un’altra auto, per rendersi conto quanto siamo abituati a interazioni (micro)rituali — una posizione consueta del bagnoschiuma, una certa direzionalità del getto dell’acqua, che implica sempre la stessa sequenza di movimenti — che possono incrinarsi, spiacevolmente o piacevolmente, in un istante. |
5 Sul far segno / far senso, vedi E. Landowski, Passions sans nom, Paris, Puf, 2004. Sulle metafore narrative, P. Fabbri, La svolta semiotica, Roma-Bari, Laterza, 1998, pp. 65-78, e Rigore e immaginazione. Percorsi semiotici sulle scienze, a cura di P. Donghi, Milano, Mimesis, 2021. |
In generale l’aggiustamento rimanda ad una semiotica della soggettività appassionata, di una soggettività che si istituisce e definisce attraverso dimensioni e modulazioni timico-estesiche (affettivo-percettive, per tradurre in un linguaggio meno tecnico). Questo regime del senso si configura come un percorso trasformativo che può andare in controtendenza rispetto a quello dettato dalla manipolazione : una condizione che nel senso comune viene spesso rappresentata dall’idea che “il corpo mi diceva di fare una cosa, la testa un’altra”. My body tells me no, but I won’t quit, ‘cause I want more, per dirla con una canzone dei Young the Giant. In sintesi, ciò che nell’aggiustamento è al centro della scena sono dei ritmi — semantici e sensibili — che si incontrano-scontrano e così facendo si modulano, si catturano, si trasformano, divengono insieme. A volte la loro ricerca, la definizione di un ritmo giusto, percepito come “appropriato”, è esattamente la posta in gioco dell’interazione. Abbiamo mostrato altrove come il dispositivo rituale del ballo sardo, in una delle sue dimensioni centrali, si configuri come una ricerca di euritmia che avviene attraverso una proposta del sensibile — la proposta di un ritmo d’esistenza, per dirla con Merleau-Ponty — che è incorporata dalla musica, che cattura i danzatori / danzatrici (i loro piedi prima di tutto !) che a loro volta retroagiscono “chiedendo” a chi suona di star dietro alle loro modulazioni corporee e affettive : un gioco inesausto di ricerca di una concordanza di ritmi, un gioco che benché si incanali rispetto a regolarità depositate negli usi consuetudinari è sempre aperto. In primo luogo aperto sulla possibilità di fallire6. |
6 F. Sedda, Tradurre la tradizione. Sardegna : su ballu, i corpi, la cultura, Milano, Mimesis, 2019 (ed. or. Roma, Meltemi, 2003). |
Il rischio in questo regime è quello dell’“inciampare”, dice Landowski, che fa riferimento ad una “posta in gioco intersomatica”. Più in generale il problema è quello di non cogliere il ritmo, di perderlo o anche di perdersi in esso. Cosa che può apparire paradossale ma che è coerente con l’idea che in un aggiustamento genuino ci devono essere sempre almeno due ritmi in interazione. La cosa si fa ancor più complessa nel caso dell’alea, che appare come un regime in cui l’insensato, comunque si materializzi, ci si offre come pura presenza : “La positiva, vissuta, patemica esperienza di incontro con una presenza piena, tangibile, benché negativa : quella del non-senso, dell’insensato”7. |
7 E. Landowski, “Complexifica- |
Davanti a questa presenza rimarrebbe soltanto la possibilità di sottometterci o ribellarci. Secondo la rilettura che Landowski ha recentemente dato di questo regime esso si scinde fra una prospettiva oggettivante e una soggettivante. Nel primo caso siamo davanti all’incidente che semplicemente accade : una serie di traiettorie indipendenti (apparentemente e relativamente indipendenti) si incrociano. Certo, questa incidentalità può rivelare trame inattese, che senza l’incidente non si sarebbero mai rivelate, restando in una dimensione di latenza, di virtualità ; oppure può mettere in moto catene di eventi ulteriormente imprevedibili. Ne abbiamo parlato toccando i temi dell’Incidente e del Caso / Caos. Da una prospettiva soggettivante a dominare non è più l’incidente ma l’assentimento, ovvero la disponibilità o meno ad accettare ciò che accade. Chi è coinvolto nell’incidente può “assentire” al suo manifestarsi. Lo può fare dicendo “così va il mondo, è stata una fatalità”, e dunque attivando una qualche forma di fatalismo. Oppure può riportare l’incidente ad un regime di manipolazione : l’incidente non è veramente tale, è una prova, è un messaggio criptato a cui rispondere. O ancora a quello della programmazione : dietro all’incidente c’è una chiara catena stringente di cause ed effetti, con una sua inevitabilità ma perfettamente spiegabile. Dall’altro il soggetto potrebbe “dissentire”, potrebbe rivoltarsi contro l’assurdo. Potrebbe vedere in esso una sfida a trovare un senso diverso alle cose del mondo, a guardare l’esistenza con il suo pullulare di eventi da un altro punto di vista : come quando una malattia “insensata” ci fa apprezzare di più il valore della vita e dei suoi piccoli tormenti quotidiani. Potrebbe coglierci un invito alla ribellione politica, all’impegno, intravvedendo dietro l’assurdo il segno di ingiustizie e storture che arrivano da lontano, di cui fino a ieri non si sapeva “leggere” la presenza e rispetto a cui è importante delineare una strategia di trasformazione delle cose e delle relazioni. O ancora, potrebbe vedere nell’incidente una “macchinazione” — termine che non a caso rimanda ad un regime programmatorio-oggettuale — rivolta specificamente contro di lui/lei e a cui sente di dover reagire, magari ingegnandosi per “incepparla”. Come si noterà questo tipo di esempi enfatizzano la negatività dell’accadere incidentale / accidentale. Tuttavia esiste anche un tipo di incidentalità positiva che si manifesta non solo nel colpo di fortuna, nella buona stella, ma in modo più diffuso nella coincidenza, nella serendipità, nel caos come luogo di opportunità. Così, come ha mostrato in un suo studio etnografico Tatsuma Padoan, chi compie il Cammino di Santiago si dispone a leggere il percorso come occasione di incontri fortuiti, di piccoli momenti di imprevedibilità, dietro cui intravvedere un senso più ampio, trascendente o esistenziale che sia8. Ci sono altri casi, come nella logica del rave, in cui l’imprevedibilità è attesa euforicamente : quanti più imprevisti, tanto migliore il rave. |
8 T. Padoan, “Conchiglia di San Giacomo”, in D. Mangano, F. Sedda, a cura di, Simboli d’oggi. Critica dell’inflazione semiotica, Milano, Meltemi, 2023. Per le considerazioni che seguono, sull’imprevedibilità nel rave, faccio tesoro di una relazione al convegno AISS 2023 di Michele Dentico. |
Proseguendo in questa ultima esplorazione ci si potrebbe chiedere che forma di assentimento è quello in cui la coincidenza è accettata senza venire ricondotta ad un quadro interpretativo più generale, come accade costantemente nella vita quotidiana : si potrebbe in questi casi parlare non di “assentimento” ma di un puro “sentimento”, un’attivazione temporanea del “sentire” rispetto al “percepire” quasi anestetizzato che ci guida nelle azioni quotidiane9. Come quando l’incontro casuale con una persona che non si vede da anni e non ci si attendeva di incontrare proprio lì, ci “scuote”, senza che si possa dire se quella coincidenza ci fa nettamente piacere o piuttosto ci lasci un amaro in bocca. Turbamento carico di ambivalenze che ci costringe a sentirci sentire. La tensione così esacerbata fra l’accettare gli eventi o il rivoltarci contro essi, prefigura uno spazio di lotta, intesa però non come costruzione-distruzione di oggetti, né nel senso di un conflitto strategico-cognitivo, né come rischiosa esplorazione di possibilità fra sensibilità-ritmi in cerca di una comunanza : si tratta invece, fenomenologicamente, di una mischia, di un luogo di incontro / scontro fra forze-energie che entrando in relazione possono dar vita a configurazioni di senso inedite. Se ciò è vero qui non abbiamo più oggetti, né valori, né valenze, ma presenze (o eventi nel senso più contingente del termine). Pensiamo alla furia incontrollata o alla muta rassegnazione che si scatena davanti ad un’improvvisa umiliazione ; o al generarsi di rivolte o mobilitazioni inattese (siano esse di marca xenofoba o progressista, non importa) sulla base di una “voce” o di un video che circola all’impazzata per strada e in rete. In tutti questi casi quello che emerge è uno spazio umorale-affettivo-energetico in cui l’incontro / scontro fra presenze-eventi genera altre presenze-eventi, in un moltiplicarsi dell’alea, dell’imprevedibilità, che mentre da un lato può proseguire potenzialmente all’infinto dall’altro, più spesso, si stabilizza venendo catturata e messa al servizio di altri regimi di senso. |
9 Sulla tensione fra il percepire e il sentire, vedi A.J. Greimas e J. Fontanille, Sémiotique des pas- |
L’arte consente di vedere in controluce questa trama di forze-presenze. Lo fa ricreando le condizioni per l’imprevisto : lasciando che il caso si faccia tangibile e che la sua logica aleatoria divenga protagonista dell’opera. è quanto succede con i White Paintings di Robert Rauschenberg e poi con 4’33’’ di John Cage, due opere in profondo dialogo traduttivo10. In entrambi i casi lo spazio vuoto-neutro (la tela bianca, il silenzio suonato) si espongono all’intervento di forze-presenze “accidentali” — il depositarsi della polvere, il gioco di luci e ombre, la trasformazione della luce solare nella sala, il passaggio di sagome davanti alla tela, nel caso dei White Paintings ; i rumori del vento o della pioggia il giorno dell’esibizione, quelli del pubblico che si muove, vocia, rumoreggia, lascia la sala, nel caso di 4’33’’ — e così facendo creano la possibilità (spesso non colta o fraintesa) perché l’imprevedibilità venga al contempo catturata (nell’opera) e resa libera (di operare). In conclusione. Se il nostro mondo è oltre il controllo, se è pieno di imprevedibilità che accadano, è anche perché né il nostro agire, né il mondo nel suo divenire, rispondono ad un unico regime. Anzi, ogni fenomeno — in qualche grado, a qualche livello, dentro una qualche prospettiva o processualità — contiene tracce di tutti i regimi, di tutti i tipi di interazione. Imparare a cogliere questo gioco consente di aumentare il grado di consapevolezza e libertà che ci è utile, forse persino vitale, per giocarlo in modo produttivo. O quantomeno a ravvivare la sensibilità per interagire con il mondo grande e imprevedibile in cui siamo gettati, ritrovando il gusto (più gusto) nel farlo (creativamente) nostro.
Indice
Introduzione 5
Raccontare l’imprevedibile 11 Imprevedibilita : salvezza o condanna ? 13 — Oltre il controllo 16 — L’intelligenza dell’imprevisto 18 — Il dominio dell’imprevedibile 22 — Il crollo del linguaggio e del reale 27 — Surrealtà 32 — Approfondire sovrapponendo, innalzarsi sondando 38
Vivere l’imprevedibile 41 Vita 43 — Morte 53 — Creazione 59 — Errore 64 — Nuovo 72 — Crisi 78 — Cambiamento 88 — Incertezza 95 — Apertura 103 — Scoperta 120 — Fluidità 130 — Rivoluzione 140 — Stranezza 146 — Eccezionalità 151 — Incidente 154 — Miracolo 158 — Caso/caos 165
Pensare l’imprevedibile 173 Fratture ed esplosioni 175 — Fra il caso e la programmazione 194 — Turbolenza : un altro modo di esplodere e creare 234 — I ritmi dell’imprevedibile 257
Ringraziamenti 301 Bibliografia 305 |
10 Vedi E. Battistini, “Il silenzio sonoro de John Cage tra arti visive e musicali : nuove possibilità semiotiche al tempo dell’Horror Pleni”, Roots/Routes. Research on Visual Culture, 2016. |
______________ 1 Cfr. Fr. Jullien, Traité de l’efficacité, Paris, Grasset et Fasquelle, 1996. 2 E. Landowski, “Complexifications interactionnelles”, in Une sémiotique en mouvement, Acta Semiotica, 2, 2021. 3 Grazie a Pierangelo Caboni, che mi ha messo a disposizione le sue competenze e sensibilità di programmatore. 4 Questa vicenda è al centro di A. Aresu, Geopolitica dell’intelligenza artificiale, Milano, Feltrinelli, 2024. 5 Sul far segno / far senso, vedi E. Landowski, Passions sans nom, Paris, Puf, 2004. Sulle metafore narrative, P. Fabbri, La svolta semiotica, Roma-Bari, Laterza, 1998, pp. 65-78, e Rigore e immaginazione. Percorsi semiotici sulle scienze, a cura di P. Donghi, Milano, Mimesis, 2021. 6 F. Sedda, Tradurre la tradizione. Sardegna : su ballu, i corpi, la cultura, Milano, Mimesis, 2019 (ed. or. Roma, Meltemi, 2003). 7 E. Landowski, “Complexifications interactionnelles”, art. cit. 8 T. Padoan, “Conchiglia di San Giacomo”, in D. Mangano, F. Sedda, a cura di, Simboli d’oggi. Critica dell’inflazione semiotica, Milano, Meltemi, 2023. Per le considerazioni che seguono, sull’imprevedibilità nel rave, faccio tesoro di una relazione al convegno AISS 2023 di Michele Dentico. 9 Sulla tensione fra il percepire e il sentire, vedi A.J. Greimas e J. Fontanille, Sémiotique des passions, Paris, Seuil, 1991. 10 Vedi E. Battistini, “Il silenzio sonoro de John Cage tra arti visive e musicali : nuove possibilità semiotiche al tempo dell’Horror Pleni”, Roots/Routes. Research on Visual Culture, 2016. |
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Recebido em 10/05/2025. / Aceito em 10/06/2025. |