Analyses et descriptions

Verità e veridizione nel diritto*

Eric Landowski
Paris, C.N.R.S — São Paulo, PUC-SP (CPS)

 

Publié en ligne le 10 juillet 2024
https://doi.org/10.23925/2763-700X.2024n7.67363
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Introduzione

La posizione dei giudici di fronte ai fatti di cui quotidianamente devono trarre le conseguenze giuridiche e che, di solito, non sono loro direttamente accessibili è un po’ come quella del filosofo nei confronti dell’esistenza di Dio : entrambi hanno bisogno di prove. Con la differenza che mentre sul metafisico grava necessariamente l’“onere della prova”, ai giudici in linea di principio non spetta che accettare o rifiutare gli elementi che le diverse parti sono incaricati di raccogliere e presentare loro a titolo di dimostrazione. In termini di semiotica narrativa, una tale attività, che consiste nel decidere del valore probatorio o meno di un elemento apportato come “prova” di un fatto dipende dalla competenza di un attante riconosciuto sin dalle prime analisi strutturali del racconto, la cui denominazione convenuta è quella di “destinante sanzionatore”1. Le connotazioni giuridiche di tale appellativo non sono fortuite.

In effetti, il racconto, come il diritto, entrambi in quanto schemi di modellizzazione dell’azione, pongono tra l’altro problemi di giudizio. Se una narrazione è in primo luogo un discorso che riporta degli eventi, reali o fittizi, è anche e soprattutto un discorso che assegna un senso alla loro concatenazione, trasformando così il puro evento in storie intelligibili. E per farlo, bisogna che il racconto riesca a far sì che ciò che riporta come accaduto “di fatto”, “in concreto”, appaia in qualche modo come giustificato, legittimato o fondato “in astratto”, ossia “per ragione” e “di diritto”. È qui che la figura attanziale del destinante è chiamata a ricoprire un ruolo chiave : garantire l’intelligibilità del narrato, a un tempo come istanza “mandante” e come istanza “giudicante”. Esercitando, a seconda del tipo di racconto considerato, una sovranità più o meno stringente su una classe di attanti soggetto — protagonisti dell’azione raccontata —, l’attante destinante interviene in primo luogo come potenza motivante, e a volte esplicitamente legiferante. Distribuendo fra i soggetti alcuni valori detti modali, il destinante determina le condizioni di possibilità e più in generale i principi regolatori delle loro azioni : il loro voler e/o dover fare, il loro poter e/o saper fare, ovvero da un lato il genere di finalità perseguite, dall’altra i mezzi d’azione di cui i soggetti dispongono per raggiungerle. Nel campo del diritto, tale funzione mandante spetta al legislatore. Egli la esercita tramite la produzione di “leggi” relative se non al volere dei soggetti di diritto (poiché la finalità del diritto, a differenza della morale, non è quella di esercitare un controllo sull’intimità delle coscienze ma di regolare i rapporti inter-soggettivi), per lo meno ai loro diritti e obblighi, ovvero al poter e dover-fare degli attori sociali. Ma una volta stabilite, tali leggi, il cui primo effetto è quello di assegnare a priori un determinato significato giuridico a una varietà molto ampia di situazioni possibili, consentono anche di decidere a posteriori del valore giuridico di un gran numero di comportamenti sociali effettivi : tale sarà il ruolo del destinante “giudicante”, attante evidentemente rappresentato, nella sfera giuridica, dalla figura attoriale del “giudice”.

* Edizione originale : “Vérité et véridiction en droit”, Droit et Société, 8, 1988. Traduzione di Maria Cristina Addis (università di Siena).


1 Per la terminologia e i concetti semiotici, cfr. A.J. Greimas e J. Courtés, Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio (1979), tr. it. Firenze, La Casa Usher, 1986. Per la loro applicazione al diritto, cfr. A.J. Greimas e E. Landowski, “Analyse sémiotique d’un discours juridique”, in A.J. Greimas, Sémiotique et sciences sociales, Paris, Seuil, 1976 ; E. Landowski, “Un approccio semiotico e narrativo al diritto”, La società riflessa, Roma, Meltemi, 1999.

Dal punto di vista giuridico, l’azione trae dunque la propria intelligibilità dal suo duplice rapporto da un lato con la “Legge”, espressione di un destinante mandante che formula determinate regole (che legifera), e dall’altro con la “sentenza”, attuale o possibile, espressione del destinante giudicante, che sanziona l’applicazione delle stesse regole (che “giudica”). Questo aspetto del diritto non comporta niente che possa sorprendere un semiologo : la distribuzione dei ruoli che abbiamo appena individuato è la copia esatta degli schemi più elementari della grammatica narrativa (a meno che, all’opposto, non sia il modello narrativo della semiotica ad essersi implicitamente ispirato alla teorizzazione giuridica). Ma qui termina quanto è teoricamente familiare al semiologo, poiché sulla base di tali strutture canoniche ben catalogate, il diritto introduce un elemento di complessità inatteso che determina la sua specificità dal punto di vista strutturale. Si tratta del principio di ricorsività che il diritto applica sistematicamente, come meta-regola, al funzionamento della sua sintassi attanziale2. Effettivamente, a differenza di ciò che possiamo osservare, ad esempio, nell’universo del racconto religioso, o in materia di rappresentazioni politiche, o ancora nel quadro del discorso etico, in ambito giuridico non pare esserci un destinante ultimo (né mandante né giudicatore) che faccia in qualche modo le veci di Dio, del Popolo o della Coscienza. Al contrario, in diritto, ogni attore con funzione d’attante destinante rispetto a un qualche soggetto è a propria volta subordinato, ricorsivamente, a un’altra istanza destinante, di rango immediatamente superiore, la cui funzione è di conferirgli un determinato mandato per agire e, al bisogno, di sanzionarne gli atti.

2 Su questo punto, cfr. “Un approccio semiotico e narrativo al diritto”, art. cit., pp. 83-87.

I diversi problemi sollevati, dal punto di vista semiotico, dalla definizione delle competenze del giudice rientrano in tale quadro generale. Ne discende una situazione a prima vista paradossale : un solo attore, il giudice, dovrà fungere a un tempo da destinante-giudicante dei contendenti di cui deve risolvere la disputa, e, nell’esercizio delle proprie funzioni, da soggetto sottoposto al suo proprio destinante, cioè alla regola di diritto, incarnata da qualche istanza giurisdizionale superiore. Combinando in questo modo due ruoli attanziali sostanzialmente distinti, il giudice occupa strategicamente il punto d’incontro fra due esigenze che vanno in direzione opposta. In quanto destinante giudicante, egli deve presentare, rispetto agli argomenti delle parti coinvolte, la garanzia di una perfetta autonomia di giudizio ; ma allo stesso tempo, nel quadro della gerarchia a cui appartiene, dovrà assumere la posizione di un soggetto relativamente eteronomo, obbligato a esercitare il proprio giudizio secondo determinate regole di cui, in generale, non è l’autore. Questo vale in particolare per le regole di valutazione della prova, cui siamo ora giunti.

Nei sistemi di diritto positivo in vigore, è spesso facile individuare disposizioni legali che definiscono, per tale o talaltra categoria di atti o fatti, le condizioni necessarie e sufficienti perché la prova della loro esistenza possa (e debba) essere ritenuta giuridicamente stabilita. In tali casi, la discrezione del giudice è evidentemente molto ridotta. È quanto accade ogni volta che il legislatore decide di instaurare un regime veridittivo fondato sulla “prova legale” stricto sensu (ad esempio l’atto notarile) o sulla “presunzione legale”, giustamente definita irrefutabile. Ma il diritto della prova ammette anche, in molti casi, ovvero i più numerosi, in particolare quelli che dipendono dalla presunzione “semplice”, tutt’altro regime per stabilire la “verità”, fondato, al contrario, sulla “libera valutazione” delle prove e sull’“intima convinzione” del giudice. Tuttavia, dato che una simile decisione giurisdizionale deve (salvo eccezioni) essere motivata, e può eventualmente essere oggetto di ricorso, il margine di “libertà” del giudice, praticamente nullo nel caso precedente, non diventa certo illimitato. Semplicemente, alle prescrizioni formali esplicitamente stabilite dalla norma del diritto si sostituisce, o sovrappone, un altro genere di prescrizione, che derivano da un altro livello di regolamentazione, “più profondo”. Quest’ultimo livello stabilisce quelle che potremmo definire le meta-regole della veridizione giuridica.

Le nostre osservazioni verteranno precisamente su tale piano, con l’obiettivo di individuare i principi meta-regolatori dell’amministrazione e della valutazione giurisdizionale delle prove (1a parte), e di cogliere il modo in cui tali principi, a prima vista eterogenei, si articolano fra di loro (2a parte). Aldilà delle disposizioni legali formali, prenderemo in considerazione sopratutto il corpus dottrinale e teorico che funge da loro riferimento e fondamento. La letteratura esistente in tale ambito essendo troppo ampia per pretendere di ricoprirla per intero, la nostra attenzione verterà principalmente su due importanti opere collettive, entrambe curate da Charles Perelman e Paul Foriers : Les présomptions et les fictions en droit e La preuve en droit3. Insieme a pochi altri lavori complementari che verranno citati all’occorrenza, tale sarà il materiale di riferimento di questo studio.

3 Ch. Perelman e P. Foriers (eds.), Les présomptions et les fictions en droit, Bruxelles, E. Bruylant, 1974 ; La preuve en droit, Bruxelles, E. Bruylant, 1981.

1. Regimi di veridizione

Leggendo i testi appena citati, spiccano alcuni tratti generali che permettono di cogliere ciò che, rispetto ad altre forme di prova dipendenti da altri universi del sapere o del credere4, ci sembra costituire la specificità della prova giudiziaria. Ciò non significa che ci troviamo davanti a una teoria perfettamente unificata, coerente e accettata da tutti i giuristi. Al contrario, abbiamo a che fare con una costruzione teorica complessa, la cui unità — se unità c’è — può essere descritta solo come il risultato dell’articolazione di molteplici problematiche che rimandano a loro volta a distinte prospettive filosofiche. Tuttavia, dato che il nostro oggetto si situa sul piano di una semiotica del discorso, e in particolare del meta-discorso giuridico (e non su quello di una filosofia del diritto), non cercheremo di risalire subito alle opzioni fondanti da cui derivano i diversi tipi di meta-discorso effettivamente manifestati. Più empiricamente, ci atterremo alla descrizione di questi ultimi, considerati in sé, sia dal punto di vista dei tratti che li differenziano che delle modalità che li articolano in sistema.

4 Cfr. ad esempio H. Parret (ed.), De la croyance. Approches épistémologiques et sémiotiques / On Believing. Epistemological and Semiotic Approaches, Berlin, de Gruyter, 1983.

1. Premesso il carattere sistematico che attribuiamo, a titolo ipotetico, alle relazioni fra i tipi di meta-discorso che ci proponiamo di descrivere, partiremo dalla posizione che almeno implicitamente sembra servire da riferimento per tutte le altre e permettere loro di costituirsi per differenza. Per adempiere a tale compito, per occupare, se così può dirsi, la posizione zero del sistema dei meta-discorsi della veridizione giurisdizionale, troviamo un dispositivo minimale in qualche modo “naturalmente” offerto, cioè anteriore a qualunque elaborazione epistemologica colta — in altri termini, che dipende dal senso comune. Secondo questa posizione limite, i “fatti” sono semplicemente i fatti. Essi “parlano da soli”. Basta dunque osservare : è l’evidenza empirica degli stati di cose che fonda la possibilità della loro “prova”, la quale è definita come segue :

Gli eventi e gli stati di cose avvengono e hanno un’esistenza indipendente dall’osservazione umana ; le affermazioni vere sono affermazioni che corrispondono ai fatti, ovvero eventi reali e stati di cose afferenti al mondo esterno.5

5 W. Twining, “The Rationalist Tradition of Evidence Scholarship”, in E. Campbell and L. Waller (eds.), Well and Truly Tried. Essays on Evidence, Sydney, The Law Book Cy, 1982, p. 244 (tr. nostra) ; id., “Some Scepticism About Some Scepticisms”, Journal of Law and Society, II, 2 e 3, 1984.

Non rientra fra i nostri obiettivi determinare se una simile teoria “corrispondentista” sia legata al genio della lingua inglese, in cui la parola “prova” si traduce correntemente con quella di “evidenza”. Il punto è che a partire da e in opposizione a tale approccio diretto ai “fatti” si definiscono le altre posizioni epistemologiche che entrano in gioco nella problematica generale delle condizioni della prova in diritto. 2. Al principio della prova per evidenza si oppone in primo luogo la concezione legale stricto sensu, quella del diritto positivo, ovvero un diritto che di certo non ha niente di “positivista”, giacché, come ricorda P. Foriers :

Qualunque fatto, anche se evidente, anche se costante, non è reputato tale in diritto.6

6 P. Foriers, “Introduction au droit de la preuve”, in Ch. Perelman e P. Foriers (eds.), La preuve en droit, op. cit., p. 9 (tr. nostra).

Alla presa immediata del dato empirico si sostituisce, di conseguenza, l’idea di costruzione del “fatto giuridico” :

Un fatto non è una cosa o un evento realmente esistente, è una cosa la cui esistenza (reale o ipotetica) è assunta dal diritto.7

7 Ibid., p. 12 (tr. nostra).

Visione forse a prima vista provocatoria, ma che deriva logicamente da questo principio di base :

Il fatto che interessa [il diritto] è il fatto giuridico, non il semplice fatto-fatto.8

8 Ibid., p. 11 (tr. nostra).

Le procedure e le poste in gioco della prova vengono allora colte da tutt’altra prospettiva : non si tratta più di rivelare la verità degli stati di cose reali — verità in sé —, ma di costruire una realtà — una realtà che abbia senso per il diritto. Non poggiando più sulle certezze del senso comune, lo stabilirsi della prova passerà invece dal rispetto di determinate procedure convenzionalmente regolate — le cosi dette “tecniche probatorie” del diritto — e sboccherà in un sapere “ritenuto” vero.

Come osservato da numerosi teorici del diritto, tale dispositivo non manca di dare adito ad alcuni paradossi dovuti al fatto che ciò che esso induce a riconoscere come “giuridicamente vero” potrebbe benissimo essere del tutto incerto, dubbio o persino falso da un altro punto di vista. A livello teorico niente di preoccupante, se ammettiamo che il diritto è un sistema semiotico di rappresentazione del mondo fra gli altri, e che non vi è alcuna necessità a priori che il regime convenzionale di veridizione che esso stabilisce per proprio conto valga anche per gli altri sistemi semiotici in uso all’interno di una comunità socio-culturale data9. Tuttavia, i giuristi fanno anch’essi parte di tale comunità, e il diritto, se così si può dire, ne risente… o si accresce, a seconda che vertiamo sulla sua “purezza” in quanto sistema, o sulla sua “umanità” in quanto istituzione sociale. Ed è proprio tale ancoraggio all’interno di un contesto più ampio, con le esigenze etiche e le soggezioni pratiche che ne risultano, che tra poco ci permetterà di rendere conto dell’emergenza, accanto a formule di verità “evidenza” e di verità “legale”, di un terzo principio costitutivo della teoria generale della prova.

9 Cfr., fra gli altri, H. Batiffol, “Observations sur la preuve des faits”, in La preuve en droit, op. cit., pp. 305-308.

Prima però ricapitoliamo. Nel primo caso, è “vero” ciò che è conforme al “reale” : gli oggetti — i fatti e le cose — da conoscere sono ritenuti godere in sé di un modo d’esistenza la cui obiettività basta a garantire che la verità si imponga, in modo necessariamente univoco, a ogni soggetto alla ricerca del sapere. Nel secondo caso, al contrario, è teoricamente ammesso che la verità dipenda dal punto di vista che si adotta : ciò che è vero in diritto non è direttamente legato a ciò che può esserlo “di fatto” ; non solo, ma accanto alla “realtà giuridica” che deve istaurare per definizione, il diritto si autorizza a crearne al bisogno un’altra, sotto forma di “finzioni giuridiche” che definiscono una verità di secondo grado, non meno convenzionale di quella di primo livello10. Rispetto all’oggettivismo della posizione di partenza, il cambiamento di prospettiva è dunque radicale11. Le condizioni del dire vero non dipendono più dalla sola “realtà oggettiva”, ma da certi parametri utilizzati, se non arbitrariamente, almeno convenzionalmente da un dato soggetto conoscente. Ciò nonostante, non giungiamo ad alcun soggettivismo. Al contrario, poiché il “soggetto” con il quale abbiamo a che fare — il giudice — resta, almeno per il momento, sotto le strette dipendenze di un sistema di convenzioni veridittive oggettivate sotto forma di regole — quelle della prova e della presunzione legali — che fissano perentoriamente i criteri di giudizio che egli deve applicare.

10 Cfr. ad esempio J. Rivero, “Fictions et présomptions en droit public français”, in Ch. Perelman et P. Foriers (eds.), Les présomptions et les fictions en droit, op. cit., pp. 102-103.


11 Cambiamento paragonabile al passaggio, tematizzato da J.-Cl. Coquet, fra discorso “il-vrai” (vero in sé) che si da come riflesso esatto del reale, e discorso “on-vrai” (vero per noi), che ricade nella sfera del contratto. Cfr. J.-Cl. Coquet, “Les discours de la véridiction”, in H. Parret (ed.), De la croyance, op. cit., in particolare pp. 62-69.

3. Ma occorre fare un passo oltre. Dopo aver smesso di emanare dalle cose stesse, il discorso vero si affranca ora anche dal sistema di convenzioni legali che l’hanno fondato successivamente. Questo nuovo cambiamento di regime può essere analizzato semioticamente come il risultato di un trasferimento di competenza concesso dall’istituzione destinante (e più precisamente mandante) a un soggetto cognitivo (e più precisamente giudicante) delegato : trasferimento che la legge designa come un “abbandono” a favore del giudice, la cui autonomia (evidentemente relativa) si trova così riconosciuta :

Le presunzioni che non siano esplicitamente stabilite dalla legge sono lasciate / abbandonate alla ragione e alla prudenza del magistrato.12

12 Art. 1353 del Codice Civile francese (tr. nostra).

Sarebbe erroneo inferire che al termine di questo percorso, l’impero della “soggettività” si sostituisca puramente e semplicemente a ogni fondamento referenziale (“oggettivo”) o convenzionale (“oggettivato”) dell’atto di giudicare. Erroneo, almeno per due ragioni.

La prima riguarda il fatto che la decisione giurisdizionale, anche quando dipende dalla sola “prudenza” e “ragione” del magistrato, in genere deve essere motivata. Detto altrimenti, le convinzioni sulle quali poggia il giudice per prendere la propria decisione possono pure discendere dalla libertà di apprezzamento concessagli per giudicare il valore probatorio delle argomentazioni presentate, ma devono in ogni caso poter essere esplicitate : non dipendono dall’ineffabile13, e soprattutto, una volta esplicitate, devono poter essere assunte da altri soggetti. La verità che attestano, vera per un “io”, deve esserlo anche, in modo più impersonale, non certo per qualunque soggetto conoscente (cosa che implicherebbe che esista una sola verità), ma almeno per ogni coscienza giuridica. In tal senso, lo statuto della verità giudiziaria non dista molto da quello della verità scientifica, che non è mai quella di un soggetto singolare, ma può darsi solo se sanzionata in quanto tale dalla comunità scientifica. Nei due casi, abbiamo in primo luogo a che fare con il credere che un individuo — ricercatore o magistrato — matura “in piena libertà di coscienza e giudizio”, ma perché questo credere si trasformi in un sapere scientificamente o giuridicamente considerato vero, in entrambi i casi bisogna anche che ciò che all’inizio concerne l’“intima convinzione” acquisisca il carattere di un discorso certo indipendentemente dal soggetto che lo enuncia. E perché questo accada, è necessario che una collettività trans-soggettiva lo assuma in quanto tale14.

13 Cfr. R. Legros, “La preuve légale en droit pénal”, in La preuve en droit, op. cit., pp. 149-173.


14 Sulla problematica semiotica del passaggio dal credere d’ordine individuale al sapere socializzato, cfr. A.J. Greimas e E. Landowski (eds.), Introduction à l’analyse du discours en sciences sociales, Paris, Hachette, 1979, pp. 16-27 ; M. de Certeau, “Le croyable”, in H. Parret e H.-G. Ruprecht (eds.), Exigences et perspectives de la sémiotique, Amsterdam, Benjamins, 1985.

Ma c’è di più. Se l’assunzione del “sapere vero” dipende da una trans-soggettività, la formazione preliminare del “credere vero”, per “intima” che appaia a prima vista, dipende anch’essa da un’inter-soggettività. D’altronde, molte lingue (a parte l’inglese) lo dicono quasi esplicitamente : in particolare l’italiano, in cui “prova” designa indissociabilmente l’elemento probatorio (fr. “preuve”) e l’ostacolo da superare (fr. “épreuve”)15. Anche se questa omonimia in alcuni casi può generare qualche ambiguità, è per noi di interesse decisivo, in quanto introduce una concezione relazionale e dinamica della prova, associandola all’idea di un processo in corso, e più precisamente un processo di scontro. Davanti al giudice si scontrano almeno due “verità”, e per venire accolte, per “vincere”, bisogna evidentemente convincere, ovvero saper tenere un discorso un po’ più verosimile di quello concorrente o, che è lo stesso, saper essere un po’ più credibili del proprio avversario (senza che ciò equivalga necessariamente ad “avere ragione”). Il tribunale è, quindi, il luogo della messa alla prova dei discorsi a pretesa veridittiva, e la “prova” è la forma significante tramite la quale avviene lo scontro intersoggettivo di cui il giudice è l’arbitro. L’intero problema consiste nel sapere in funzione di cosa si eserciti esattamente tale arbitrio.

15 Cfr. ad esempio L. Biondi e D. Carzo, “La prova di capacità. Capacità della prova”, Working papers, 5, 1987, Università di Messina, Facoltà di Scienze Politiche.

In teoria, la risposta è semplice : dal momento in cui usciamo dall’ambito di applicazione del regime della prova legale, si applica il regime della “libera valutazione” delle prove. Ma la risposta non fa che rilanciare la domanda : dato che ogni giudizio suppone il ricorso a un sistema di valori, a che genere di criteri può — o anche deve — riferirsi il giudice, una volta fuori dalla sfera del legale stricto sensu, per decidere del valore probatorio delle tesi a confronto e/o della buona fede delle parti ? La risposta, stavolta, è semplice : si rifarà (sovranamente) al grado di verosimiglianza dei discorsi, e anche (inevitabilmente) alla maggiore o minore credibilità di coloro che li formulano16. Queste sono le due forme possibili di produzione del verosimile, l’una più “narrativa”, fondata sulla narrazione dei “fatti” enunciati17, l’altra già “discorsiva”, risultante dalla messa in scena dei soggetti enuncianti18. Ora, niente è più “codificato” socio-culturalmente di tali forme, sia che le consideriamo dal punto di vista dei produttori di discorso che le utilizzano per “farsi credere” (per persuadere), sia dal punto di vista dei destinatari che vi ricorrono per “farsi un’opinione”, una “convinzione” (per interpretare). Così, la teoria della “libera” valutazione — in altri termini, della “prova-esame” — pone il giudice alle dipendenze di un sistema di regolazione intersoggettiva del credere, che dipende a sua volta in ultima istanza da una grammatica (narrativa e discorsiva) del discorso sociale.

16 Cfr. H. Batiffol, art. cit., pp. 308-310.


17 Cfr. B.S. Jackson, “Truth or Proof ? The Criminal Verdict”, International Journal for the Semiotics of Law / Revue Internationale de Sémiotique Juridique, X, 33, 1998.


18 Cfr. E. Landowski, “Sincerità, fiducia e intersoggettività”, La società riflessa, Roma, Meltemi, 1999.

Una simile constatazione, lo si noterà, non fa in realtà che riprendere, ampiandola, una visione tradizionale. Come scrive ancora P. Foriers :

I modi della prova fanno parte dello strumentario retorico.19

19 P. Foriers, in La preuve en droit, op. cit., p. 18 (tr. nostra).

Ma tali modi fanno parte anche dello “strumentario semiotico” di cui dispone ogni soggetto enunciante per convincere e convincersi. Indubbiamente, né la regola giuridica né la teoria del diritto incorporano formalmente nel proprio ambito le prescrizioni puntuali fissate dalla retorica dell’argomentazione, né le regolarità grammaticali, di tipo più generale, che la semiotica narrativa e discorsiva si assumono il compito di esplicitare. Ma convocando nozioni chiave come quelle di convinzione, apprezzamento, valutazione, verosimile, ecc., rinviano quasi direttamente20 alle meta-regole che organizzano i processi inter-soggettivi della veridizione, e che le discipline di cui sopra assumono specificamente come oggetto di studio.

20 Cfr. ad esempio J. Cohen, The Probable and the Provable, Oxford, Oxford University Press, 1977, pp. 274-275, citato in W. Twining, “Some Scepticism...”, art. cit., p. 287.

4. Lo schema rimarrebbe però incompleto se non introducessimo ora una quarta e ultima posizione che, non fosse che a titolo di posizione limite e in qualche modo ideale, ricopre comunque un preciso ruolo nel sistema dei principi meta-regolatori che determinano le pratiche dell’amministrazione e valutazione delle prove in diritto. È lo “strumentario” della logica a fornirne gli elementi. Non sarà più questione né di verosimiglianza sociale dei discorsi persuasivi, né di legalità convenzionale degli strumenti probatori, né dell’evidenza empirica dei presunti fatti, ma della validità formale delle operazioni che permettono di stabilire il valore di verità delle proposizioni enunciate nel corso del ragionamento giuridico. Per definizione, si tratta del luogo, all’interno dell’intero sistema, dove le modalità di controllo del discorso vero (o considerato tale) offrono il maggior grado di scientificità, o quanto meno in cui le marche di scientificità si mostrano con maggiore evidenza, eventualmente sotto le spoglie del ragionamento sillogistico e del calcolo proposizionale e modale fondato sull’utilizzo dei linguaggi simbolici derivati della logica formale e della meta-logica21. Che posto occupano tali approcci formali, e più in generale, qual’è il ruolo dell’elemento scientifico rispetto agli altri strumenti di produzione e validazione delle prove che abbiamo incontrato in precedenza ?

21 Cfr. ad esempio G. Kalinowski, La logique des normes, Paris, P.U.F., 1972.

È più che banale, a questo proposito, osservare che il diritto è allo stesso tempo due cose. Per alcuni suoi aspetti, è, nella sfera delle scienze umane, uno dei campi che si presta meglio all’ideale di formalizzazione caratteristica delle concezioni epistemologiche più “dure”. Per altri, invece, è uno di quelli in cui s’impongono più tassativamente un insieme di procedure che dipendono dall’esperienza, dall’intuizione, dalla “prudenza”, in breve da un certo “sapere”, quanto o più che dalla “scienza”. Ai successi esemplari della logica giuridica stricto sensu (scienza del linguaggio e del metalinguaggio delle norme, semiotica deontica), si oppone la quotidianità di un diritto se non “privo di rigore”, quanto meno privo degli stessi rigori (o dello stesso genere di rigore). I giuristi sono i primi ad ammetterlo, sapendo molto bene che le loro procedure hanno spesso l’effetto di condurre a conclusioni “quantomeno inquietanti per il puro logico del diritto”22. Che alcuni vi vedano un’ammissione (una prova ?) se non dell’irrazionalità, perlomeno della non-razionalità del diritto è un dato di fatto, ma a nostro avviso si tratta di un problema mal posto, e al momento di concludere sosterremo al contrario l’idea della presenza di una pluralità di tipi di razionalità. In ogni caso, per il momento, ammettiamo la constatazione tutto sommato triviale che la pratica giuridica concreta — il ragionamento e il discorso dei giudici — obbedisce perlopiù a regole diverse da quelle di un’assiomatica “puramente” logica (anche se una tale assiomatica regola effettivamente le espressioni formulate nel metalinguaggio della teoria delle norme).

22 P. Foriers, in La preuve en droit, op. cit., p. 315 (tr. nostra).

Ma se la “scienza delle scienze” — la logica — trascende la pratica giuridica quotidiana, che ne è delle altre scienze in relazione con la sfera del diritto ? Qui il quesito non è più dell’ordine del metodo (nel senso in cui la logica proponeva un metodo formale di ragionamento), ma interessa lo statuto delle conoscenze scientifiche rispetto all’istituzione giuridica. Il “sapiente” (medico o psicologo, chimico o grafologo, ecc.) ha un ruolo ben nominato in udienza, come nel corso dell’inchiesta che la precede : é l’esperto. Tuttavia, per quanto scientifico (o supposto tale) possa essere, il suo discorso rimane sempre soggetto all’apprezzamento finale del giudice, il quale è l’unico a determinarne il senso e la portata. Questo in primo luogo per ragioni di principio : la giurisdizione non può essere privata del suo potere interpretativo e decisionale, neppure in nome di un sapere “scientificamente” vero ; ma anche per un motivo più contingente : in tribunale, la scientificità di un sapere non è mai, da sola, garante della propria “verità” :

la scienza odierna è insufficiente (…). L’unica soluzione pratica è quella di valutare le opinioni degli esperti come tutte le altre prove.23

23 J. Wróblewski, “La preuve juridique : axiologie, logique et argumentation”, in La preuve en droit, op. cit., p. 350 (tr. nostra).

Regime veridittivo di tipo misto24, forse anche paradossale, in cui la “scienza” viene effettivamente convocata e ascoltata, ma in cui le proposizioni che essa dimostra, lungi dall’esercitare un qualche monopolio quanto all’enunciato della verità, hanno solo il titolo di “opinioni” fra le altre, tutte ugualmente poste sotto il controllo di una ragione non più dimostrativa ma discorsiva. Questo ritorno dal formale al discorsivo completa il dispositivo, che adesso possiamo considerare nel suo insieme.

24 Cfr. J. Wróblewski, ibid., p. 332.

2. Configurazioni giurisdizionali

Sono state individuate quattro posizioni a partire dai tratti che le distinguono o le oppongono. Utilizzando la formalità del quadrato semiotico, che poggia sulla distinzione fra le relazioni elementari di contraddizione (c/d e a/b), di contrarietà (c/a e b/d) e di complementarietà (b/c e d/a)25, possiamo ora schematizzare come segue il percorso appena compiuto :

25 Cfr. A.J. Greimas e J. Courtés, op. cit., pp. 29-33.

Schema 1.

Un tale schema può essere considerato in primo luogo come una rappresentazione di tipo tassonomico, che insiste sulle differenze e sottolinea gli scarti o le incompatibilità. Da questo punto di vista, il modello riassume gli sviluppi che precedono, dove si trattava di identificare e classificare una serie di posizioni quanto più diverse le une dalle altre. Ma lo stesso schema può inoltre essere concepito come la base di una sintassi, ed è proprio questo il punto essenziale.

Di fatto, pur supponendo che i diversi regimi veridittivi isolati in quanto tipi abbiano, per il giudice, valore di principi di riferimento (o di meta-regole), sarebbero nondimeno rari i casi in cui uno qualunque di tali regimi-tipo fosse sufficiente, da solo, a rendere conto dei principi effettivamente applicati in occasione di una decisione concreta in tribunale. Per questo, al di là del reperimento delle classi di posizioni possibile, bisogna individuare anche il modo in cui i corrispondenti regimi di veridizione si articolano fra loro. La sintassi del modello, in quanto rete di relazioni, lo permette.

1. Fra queste relazioni, ce ne sono almeno due che, cammin facendo, abbiamo già sommariamente tematizzato. Siamo partiti da una prima possibilità, quella dell’evidenza empirica degli oggetti del mondo, polo “zero” situato quasi ancora al di fuori della sfera del diritto (“a” nello schema 1). Poi, la negazione logica di questa posizione ci è apparsa come una prima operazione, fondatrice della “realtà giuridica” in quanto tale, la cui conseguenza (fra le altre) è la comparsa del regime della prova “legale” stricto sensu (b). Simmetricamente, a fine percorso, abbiamo visto come, di fronte all’ideale di una verità strettamente fondata in termini logico-scientifici — altra posizione limite che rinvia questa volta a un’aldilà del diritto (d) — si effettui, anche qui per negazione logica, il ritorno dall’“episteme” alla “doxa”, dato che la dimostrazione cede il posto alla persuasione discorsiva, la “scienza” al sapere, il “vero” al vero-simile (c). Queste sono le interpretazioni dinamiche, formulate in termini di operazioni, che possiamo associare rispettivamente a ognuna delle relazioni di contraddizione (rappresentate dalle linee diagonali) del modello.

Tuttavia, qualunque sia il carattere categorico delle opposizioni così postulate e delle operazioni ad esse sottese, le negazioni operate — che mettano in discussione lo statuto veridittivo dell’“evidenza” o quello della “ragione scientifica” — non equivalgono a puri e semplici rifiuti, ma piuttosto alla virtualizzazione delle posizioni considerate. È così che la realtà giuridica si costruisce (b) virtualizzando la presa immediata del “reale” dato a priori (a) ; allo stesso modo, la verosimiglianza giuridicamente ammessa, costituendosi intersoggettivamente (c), ha l’effetto di virtualizzare le “verità” d’ordine scientifico (d), di ricondurle allo statuto di “opinioni” fra le altre.

2. A differenza della relazione di contraddizione, che esclude per definizione la coesistenza sullo stesso piano o allo stesso modo dei termini che convoca, la relazione di contrarietà autorizza invece l’attualizzazione concomitante dei contrari sotto forma di termini complessi che li sussumono e designano il loro comune nodo semantico26. Nel contesto giuridico, tali termini di seconda generazione sono altrettanto facilmente riconoscibili. Da un lato, con i regimi veridittivi della prova legale da una parte (b) e della dimostrazione scientifica valida dall’altra (d), abbiamo a che fare con due tipi di formalismi. Essi poggiano certo su due assiomatiche interamente differenti, ma suscettibili di congiungersi per produrre — fosse solo utopicamente — il modello di una giustizia che dominerebbe integralmente le regole di generazione delle proprie proposizioni valide e, in questi termini, della propria verità : una giustizia formale perfetta (“A” nello schema 2, infra).

26 Una tale operazione di “conciliazione dei contrari” non è esclusa dal punto di vista della logica naturale (e non formale) di cui il quadrato semiotico (e non logico) cerca di rendere conto. Per di più, svolge una funzione cruciale in ogni genere di discorso sociale, di certo in quelli mitologici ma anche, ad esempio, filosofici, o ancora — tale quantomeno è la nostra ipotesi — giuridici.

La controparte di questa formula sarebbe quella, diametralmente opposta (perché corrispondente all’altro asse dei contrari), di una pura giustizia sentimentale27, forse meno utopica, che dipenderebbe in toto dal senso comune : sia dal sentimento d’evidenza di fronte ai fatti (a), sia dal consenso intersoggettivo sulle forme di verosimiglianza sociale (c), ovvero da due modi di formazione delle convinzioni che, senza dubbio, obbediscono anch’esse a certe regole, ma a regole che non esigono né la loro esplicitazione né a fortiori la loro formalizzazione (“B” nello schema 2).

3. Restano da prevedere due ultime operazioni per esaurire le potenzialità del modello. Mentre la prima ci conduce lontano dalla pratica giuridica effettiva, l’altra ci riporta nei suoi pressi.

Nel primo caso, si tratta della congiunzione di termini precedentemente identificati come costituenti rispettivamente l’“al di qua” e l’“aldilà” del sistema : un al di qua rispetto a ciò che una giurisdizione può accettare a titolo di prova, dato che l’evidenza (a), in sé, non è sufficiente in diritto ; o viceversa un aldilà rispetto a ciò che un giudice deve esigere per lasciarsi convincere, sapendo che sarebbe del tutto vano aspettarsi di trovare ogni volta “dimostrazioni” ben formate (d). Se si tratta di due modi di produzione del vero che la pratica giuridica in realtà può solo considerare in modo virtuale, per contro, dal punto di vista di un razionalismo radicale, solo la loro articolazione effettiva — un approccio ai dati empirici (a) condotto per intero secondo i metodi della deduzione scientifica (d) — permetterebbe di fondare la determinazione giurisdizionale dei diritti dei soggetti sulla conoscenza esatta dei fatti, di legare strettamente la decisione del giudice a un sapere sulle cose. Non ci si stupirà del fatto che fra gli autori delle due raccolte a cui ci riferiamo principalmente (molti dei quali giuristi pratici, parecchi altri teorici vicini alla “nuova retorica”) la preoccupazione per l’eventualità di una giustizia scientifica di questo tipo (“C” nello schema 2) sia quasi assente. Tuttavia, in quanto modello ultimo di razionalità, anche una simile configurazione teorica ha il suo posto nell’orizzonte del sistema dei meta-discorsi regolatori di qualunque ricerca giudiziaria della verità.

27 Cfr. R. Legros, art. cit., p. 173.

L’esame dell’altra relazione di complementarità (“D”) prevista della sintassi del modello ci riconduce invece proprio al cuore dei problemi della pratica giurisdizionale. Obbedendo all’imperativo di legalità (b) — e non più all’impressionismo di una supposta presa diretta del reale (a) —, il regime dell’“intima” convinzione (c), nella sua dimensione inter-soggettiva e dunque sociale, comporta l’esclusione di qualunque coloratura “sentimentale”. Allo stesso modo, le regole formali della prova (b), ormai chiamate ad esercitarsi in un contesto marcato dalla presenza di determinati valori sociali da promuovere o difendere — in particolare l’equità, la sicurezza giudiziaria, l’efficacia, ovvero valori conformi alle scelte ideologiche dell’“opinione” (c) piuttosto che alle esigenze epistemologiche della “scienza” (d) — sfuggono ai pericoli di un puro formalismo e si trasformano in altrettanti strumenti tecnici al servizio di una giustizia operativa28 mirante al bene comune. In altri termini, qui :

la prova e la verità non sono che mezzi per realizzare la giustizia, così come concepita in una società data.29

28 Cfr. J. Wróblewski, “Structure et fonctions des présomptions juridiques”, in Les présomptions..., op. cit., pp. 47, 56 e 71 ; P. Foriers, ibid., p. 23.


29 Ch. Perelman, “La preuve en droit : essai de synthèse”, in La preuve..., op. cit., p. 64 (tr. nostra).

Lo schema che segue completa il precedente integrandolo con l’indicazione dei tipi di configurazione giurisdizionale (A, B, C, D) appena dedotti dalla messa in relazione dei quattro regimi veridittivi di base (a, b, c, d) :

Conclusioni

Quando, all’inizio, abbiamo indicato il quadro generale di questo studio, ci siamo riferiti alla prospettiva narrativa. In corso d’opera, tuttavia, è possibile che il lettore abbia avuto l’impressione che una prospettiva differente, di tipo epistemologico — per quanto il termine suoni ambizioso — si sia surrettiziamente sostituita a quella annunciata. Per concludere, vorremmo mostrare come in realtà si annodino qui i due fili di una stessa e unica problematica, posta sotto il segno di una semiotica del diritto. Per farlo, poggeremo su alcuni lavori di Bernard S. Jackson, in cui l’autore, trattando dei modelli narrativi d’ispirazione semiotica disponibili per la descrizione dei discorsi e delle pratiche giurisdizionale, mette opportunamente in luce l’esistenza di due livelli di pertinenza distinti e complementari30.

30 Cfr. B.S. Jackson, “Narrative Models in Legal Semiotics”, International Journal for the Semiotics of Law, I, 3, 1988 ; id., “A Journey into Legal Semiotics”, Actes Sémiotiques, 120, 2017.

In primo luogo, possiamo considerare il tribunale come uno spazio scenico all’interno del quale ogni osservatore assiste alla costituzione — o meglio, la ricostituzione, durante lo svolgimento del processo — della trama di una “storia” di riferimento, ovvero quella i cui dettagli hanno a un certo punto condotto la giustizia a doversi pronunciare. Questa storia, “the story in the trial”, ci viene raccontata sotto forma di discorso a più voci, composto di versioni successive, spesso contraddittorie, e presentate le une dalle parti o dai loro difensori, le altre dai testimoni o dagli esperti, ecc. Ognuna di queste produzioni narrative, anche se frammentarie, che rivendicano a qualche titolo il privilegio di essere ritenute vere, obbligano evidentemente a scegliere : a chi si può o si deve dunque credere ? Abbiamo visto che per stabilirlo esistono diversi generi di criteri a disposizione del giudice, legati a tipi di razionalità distinti e corrispondenti ad altrettanti regimi veridittivi specifici. Però qui si innesta già un’“altra storia”, una storia che non rinvia più a un passato, vicino o lontano, da ricostituire, ma una storia che si svolge sotto i nostri occhi, qui e ora, come un atto drammaturgico di cui saremmo gli osservatori : “the story of the trial”. La prima storia, “in the trial”, era mossa dalla ricerca di una verità ultima, supposta leggibile — fosse anche al prezzo di lunghi sforzi — nell’essere stesso delle cose. La seconda al contrario è innescata dal gioco degli effetti veridittivi immediatamente connessi alla parola degli attori in presenza, al dire dei soggetti riuniti nel recinto giudiziario, alla loro “enunziazione”.

Ben inteso, a dispetto delle differenze, questi due livelli di funzionamento sono strettamente legati. Non solo la natura dello scioglimento del dramma in corso (durante il processo) apportato dalla sentenza dipende dai contenuti del racconto di riferimento che emergerà infine come la versione ritenuta vera dei fatti passati, ma allo stesso tempo e soprattutto, in senso opposto, il lavoro presupposto dall’elaborazione giuridica di questa versione “veridica” si effettua secondo certe modalità che, a loro volta, sottostanno a un sistema di vincoli narrativi secondi, quelli propri all’organizzazione del meta-racconto rappresentato dal processo stesso in quanto scontro drammaturgico.

Ora, in base a quanto messo in luce in precedenza, possiamo concepire la forma di almeno uno dei vincoli che operano a questo livello meta-narrativo. Di fatto, tutto lascia pensare all’esistenza di una corrispondenza relativamente stretta fra le posizioni di narrazione assegnate a ognuno degli attanti del meta-racconto, e i rispettivi regimi di veridizione a loro applicabili. Ad esempio, se un minimo di “verosimiglianza” può essere in linea di principio sufficiente per rendere ammissibile il racconto enunciato dall’attante-accusato, sarà certamente maggiore quella richiesta all’attante-esperto : questi dovrà “dimostrare” le proprie conclusioni ; ugualmente, se da un testimone probabilmente non ci si aspetta nient’altro che il racconto dei fatti che gli sono parsi “evidenti”, per quanto riguarda l’avvocato bisognerà in generale che egli fornisca prove seriamente fondate “in diritto”. Senza entrare troppo nei dettagli tecnici, vediamo come di conseguenza a ognuna delle classi di protagonisti che partecipano allo svolgimento del processo sono associati allo stesso tempo, da una parte un insieme di determinazioni narrative specifiche — semioticamente analizzabili in termini di ruoli attanziali e di competenze modali — e dall’altra, correlativamente, un tipo preferenziale di criteri “epistemologici” che reggono, per ognuno di loro, un proprio modo d’accesso alla “verità”.

Il presente studio ha posto l’accento sul secondo di questi aspetti. Rimane pertanto da sviluppare un’analisi non meno sistematica del dispositivo narrativo, cioè attanziale e modale, al quale — questa perlomeno è la nostra ipotesi — si articola il sistema veridittivo qui esplorato. La congiunzione di queste due componenti dovrebbe instradarci verso una teoria “meta-narrativa” più generale, al fine di rendere meglio conto delle regolarità semiotiche soggiacenti al processo decisionale in tribunale31.

31 Cfr. E. Landowski, “Les métamorphoses de la vérité”, Acta Semiotica, II, 3, 2022.


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* Edizione originale : “Vérité et véridiction en droit”, Droit et Société, 8, 1988. Traduzione di Maria Cristina Addis (università di Siena).

1 Per la terminologia e i concetti semiotici, cfr. A.J. Greimas e J. Courtés, Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio (1979), tr. it. Firenze, La Casa Usher, 1986. Per la loro applicazione al diritto, cfr. A.J. Greimas e E. Landowski, “Analyse sémiotique d’un discours juridique”, in A.J. Greimas, Sémiotique et sciences sociales, Paris, Seuil, 1976 ; E. Landowski, “Un approccio semiotico e narrativo al diritto”, La società riflessa, Roma, Meltemi, 1999.

2 Su questo punto, cfr. “Un approccio semiotico e narrativo al diritto”, art. cit., pp. 83-87.

3 Ch. Perelman e P. Foriers (eds.), Les présomptions et les fictions en droit, Bruxelles, E. Bruylant, 1974 ; La preuve en droit, Bruxelles, E. Bruylant, 1981.

4 Cfr. ad esempio H. Parret (ed.), De la croyance. Approches épistémologiques et sémiotiques / On Believing. Epistemological and Semiotic Approaches, Berlin, de Gruyter, 1983.

5 W. Twining, “The Rationalist Tradition of Evidence Scholarship”, in E. Campbell and L. Waller (eds.), Well and Truly Tried. Essays on Evidence, Sydney, The Law Book Cy, 1982, p. 244 (tr. nostra) ; id., “Some Scepticism About Some Scepticisms”, Journal of Law and Society, II, 2 e 3, 1984.

6 P. Foriers, “Introduction au droit de la preuve”, in Ch. Perelman e P. Foriers (eds.), La preuve en droit, op. cit., p. 9 (tr. nostra).

7 Ibid., p. 12 (tr. nostra).

8 Ibid., p. 11 (tr. nostra).

9 Cfr., fra gli altri, H. Batiffol, “Observations sur la preuve des faits”, in La preuve en droit, op. cit., pp. 305-308.

10 Cfr. ad esempio J. Rivero, “Fictions et présomptions en droit public français”, in Ch. Perelman et P. Foriers (eds.), Les présomptions et les fictions en droit, op. cit., pp. 102-103.

11 Cambiamento paragonabile al passaggio, tematizzato da J.-Cl. Coquet, fra discorso “il-vrai” (vero in sé) che si da come riflesso esatto del reale, e discorso “on-vrai” (vero per noi), che ricade nella sfera del contratto. Cfr. J.-Cl. Coquet, “Les discours de la véridiction”, in H. Parret (ed.), De la croyance, op. cit., in particolare pp. 62-69.

12 Art. 1353 del Codice Civile francese (tr. nostra).

13 Cfr. R. Legros, “La preuve légale en droit pénal”, in La preuve en droit, op. cit., pp. 149-173.

14 Sulla problematica semiotica del passaggio dal credere d’ordine individuale al sapere socializzato, cfr. A.J. Greimas e E. Landowski (eds.), Introduction à l’analyse du discours en sciences sociales, Paris, Hachette, 1979, pp. 16-27 ; M. de Certeau, “Le croyable”, in H. Parret e H.-G. Ruprecht (eds.), Exigences et perspectives de la sémiotique, Amsterdam, Benjamins, 1985.

15 Cfr. ad esempio L. Biondi e D. Carzo, “La prova di capacità. Capacità della prova”, Working papers, 5, 1987, Università di Messina, Facoltà di Scienze Politiche.

16 Cfr. H. Batiffol, art. cit., pp. 308-310.

17 Cfr. B.S. Jackson, “Truth or Proof ? The Criminal Verdict”, International Journal for the Semiotics of Law / Revue Internationale de Sémiotique Juridique, X, 33, 1998.

18 Cfr. E. Landowski, “Sincerità, fiducia e intersoggettività”, La società riflessa, Roma, Meltemi, 1999.

19 P. Foriers, in La preuve en droit, op. cit., p. 18 (tr. nostra).

20 Cfr. ad esempio J. Cohen, The Probable and the Provable, Oxford, Oxford University Press, 1977, pp. 274-275, citato in W. Twining, “Some Scepticism...”, art. cit., p. 287.

21 Cfr. ad esempio G. Kalinowski, La logique des normes, Paris, P.U.F., 1972.

22 P. Foriers, in La preuve en droit, op. cit., p. 315 (tr. nostra).

23 J. Wróblewski, “La preuve juridique : axiologie, logique et argumentation”, in La preuve en droit, op. cit., p. 350 (tr. nostra).

24 Cfr. J. Wróblewski, ibid., p. 332.

25 Cfr. A.J. Greimas e J. Courtés, op. cit., pp. 29-33.

26 Una tale operazione di “conciliazione dei contrari” non è esclusa dal punto di vista della logica naturale (e non formale) di cui il quadrato semiotico (e non logico) cerca di rendere conto. Per di più, svolge una funzione cruciale in ogni genere di discorso sociale, di certo in quelli mitologici ma anche, ad esempio, filosofici, o ancora — tale quantomeno è la nostra ipotesi — giuridici.

27 Cfr. R. Legros, art. cit., p. 173.

28 Cfr. J. Wróblewski, “Structure et fonctions des présomptions juridiques”, in Les présomptions..., op. cit., pp. 47, 56 e 71 ; P. Foriers, ibid., p. 23.

29 Ch. Perelman, “La preuve en droit : essai de synthèse”, in La preuve..., op. cit., p. 64 (tr. nostra).

30 Cfr. B.S. Jackson, “Narrative Models in Legal Semiotics”, International Journal for the Semiotics of Law, I, 3, 1988 ; id., “A Journey into Legal Semiotics”, Actes Sémiotiques, 120, 2017.

31 Cfr. E. Landowski, “Les métamorphoses de la vérité”, Acta Semiotica, II, 3, 2022.

 

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Résumé : Que veut dire « prouver » dans le cadre du droit ? L’article met en évidence quatre régimes véridictoires respectivement fondés sur l’évidence empirique, sur la légalité des instruments probatoires, sur la vraisemblance sociale des discours de persuasion et sur la validité formelle des raisonnements démonstratifs. Des relations entre ces éléments résultent diverses configurations juridictionnelles allant d’une justice purement « sentimentale » à une justice utopiquement « scientifique ». Dans le déroulement d’un procès, les mêmes éléments tendent à définir, pour chacune des parties prenantes, un mode spécifique d’accès à la « vérité » au regard du juge.


Resumo : Verdade e veridição no direito. — O que quer dizer “provar” no âmbito do direito ? O artigo distingue quatro regimes veridictórios respetivamente fundados na evidência empirica dos fatos, na legalidade dos instrumentos probatórios, na verosimilitude social dos discursos de persuasão e na validade formal dos raciocinios demonstrativos. Das relações entre esses elementos resultam diferentes configurações juridicionais possíveis, desde uma justiça puramente “sentimental” até uma justiça utopicamente científica. No desenrolar de um processo, os mesmos elementos tendem a definir, para cada uma das partes um modo específico de acesso à “verdade” no olhar do juiz.


Abstract : What does the verb “to prove” mean in the legal domain ? The article develops a distinction between four regimes of verediction, respectively founded on empirival evidence, on the legality of documents or procedures, on the credibility of persuasive discourses, and on the formal validity of demonstrative reasonings. From the possible combinations of these elements result different jurisdictional configurations ranging from a purely “sentimental” to an utopically scientific justice. During a legal process, the same elements tend to define, for each of the participants, a specific mode of establishing “truh”.


Riassunto : Cosa vuol dire “provare” in ambito giuridico ? L’articolo individua quattro regimi veridittivi, fondati rispettivamente sull’evidenza empirica dei fatti, sulla legalità degli strumenti probatori, sulla verosimiglianza sociale dei discorsi persuasivi e sulla validità formale del ragionamento dimostrativo. Le loro relazioni producono diverse configurazioni giuridiche possibili, che vanno da una giustizia puramente “sentimentale” a una giustizia utopicamente “scientifica”. Durante il processo, questi stessi regimi tendono a definire, per il giudice, altrettante modalità di accesso alla “verità” presentata da ognuna delle parti interessate (testimoni, imputati, avvocati, esperti).


Mots clefs : droit, preuve, véridiction, vérité.


Auteurs cités : Algirdas J. Greimas, Bernard S. Jackson, Charles Perelman.


Plan :

Introduzione

1. Regimi di veridizione

2. Configurazioni giurisdizionali

Conclusioni

 

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Recebido em 10/10/2021. / Aceito em 14/10/2022.