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Dossier — Marketing : nouvelles tendances stratégiques
Dialogo : marketing Giulia Ceriani Paolo Peverini
Publié en ligne le 10 juillet 2024
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Giulia Ceriani. — Nel contesto di quelli che possiamo intendere come i filoni di ricerca attivi nell’ambito degli scambi comunicazionali che qualificano l’immaginario dei consumi, la questione della matrice “culturale” degli orientamenti — e in particolare di quelli che vanno poi a definire delle scelte vincenti — è ben presente. E tuttavia, mi chiedo se non possiamo qui andare più a fondo sulla nozione stessa di cultura, e se così facendo non possiamo, almeno in ipotesi, provare a definire delle pratiche analitiche : che la cultura sia da intendersi come intreccio testuale, che sia piattaforma di incroci tensivi, che sia radicamento in quelle matrici identitarie che definiscono (in continuità o discontinuità ?) una congiuntura data… quale approccio semiotico utile possiamo darci per considerare più precisamente il concetto di cultura ?
Paolo Peverini. — Credo sia utile iniziare con una premessa. La rilevanza della dimensione culturale nel branding è uno dei prerequisiti dell’analisi semiotica che tuttavia, in maniera piuttosto singolare, fino ad oggi si è scarsamente interessata alle prospettive di ricerca che caratterizzano un filone consolidato da anni degli studi sul consumo che prende le mosse proprio a partire dalla considerazione del ruolo decisivo svolto dai fenomeni culturali nelle logiche del consumo : la consumer culture theory. |
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Un autore centrale in questo contesto è senz’altro Douglas Holt, figura di rilievo negli studi di marketing ma fino a poco tempo fa pressoché ignorato nell’ambito della ricerca semiotica sul branding e i fenomeni del consumo1. Nei suoi lavori Holt parte dalla premessa, tanto provocatoria quanto empiricamente inoppugnabile, che le teorie più consolidate nell’ambito della consumer research non consentono di dare conto della rilevanza assunta da una categoria particolare di brand, chiamati “iconic”, perché non tengono adeguatamente conto della dimensione culturale che le marche sono in grado di assumere, dispiegare e rinegoziare nel corso del tempo, agendo a tutti gli effetti come degli attori socialmente rilevanti2. Contrariamente all’assunto secondo il quale i core values di una marca costituirebbero un nucleo di associazioni astratte che i brand manager sarebbero chiamati a mantenere stabili nel corso del tempo, la storia di brand come Coca-Cola, Nike, Budweiser, Harley Davidson testimonia di un processo di acquisizione di valore simbolico (dunque economico) tutt’altro che lineare e stabile, per la cui comprensione è essenziale ripartire dall’analisi di eventi, prodotti culturali, pratiche di consumo in cui si manifesta l’intreccio complesso di molteplici dimensioni sociali : storica, economica, culturale, politica. |
1 Cfr. P. Peverini, “Coca Cola”, in D. Mangano e F. Sedda (eds.), Simboli d’oggi. Critica dell’inflazione semiotica, Milano, Meltemi, 2023 ; id., “Prefazione”, in D. Holt, Cultural Branding. Come i brand diventano icone, Roma, Luiss University Press, 2024. D. Mangano, “Biglietti d’invito”, ibid. 2 D. Holt, How brands become icons. The principles of cultural branding, Harvard Business Review Press, Boston, 2004. D. Holt e D. Cameron, Cultural strategy. Using innovative ideologies to build breakthrough brands, Oxford, Oxford U.P., 2010. |
L’originalità del lavoro di Holt consiste così nel dimostrare, dati alla mano, i limiti insiti nelle prospettive di analisi del consumo che sottovalutano la dimensione simbolica dei brand, arrivando a documentare, tramite l’analisi di una serie di casi che noi in semiotica definiremmo “esemplari”, che l’andamento del valore economico di una marca è conseguenza e non premessa della capacità di esprimere significazione. Nella prospettiva del cultural branding le marche si rivelano dunque dei veri e propri “attivisti culturali” in grado di intercettare una serie di tensioni profonde (cultural tensions) che investono il corpo sociale, offrendo ai consumatori / cittadini delle soluzioni nella cui efficacia l’advertising riveste un ruolo determinante. Usando (senza riferimento al metalinguaggio della semiotica) nozioni che sono al fondamento dello studio della significazione come icona, simbolo, racconto, l’autore non si limita all’analisi critica del branding ma elabora un modello per la gestione manageriale delle marche che si fonda sull’acquisizione di un sapere culturale che — “si basa sui principali cambiamenti sociali che riguardano un’intera nazione piuttosto che singoli gruppi identitari” ; — “prende in considerazione il ruolo delle principali variabili sociali — classe, genere ed etnia — nella costruzione dell’identità anziché metterle in ombra classificando le persone per gruppi “psicografici” ; — “vede il brand come un attore storico che è parte della società” ; — “guarda alle persone in modo olistico, cercando di capire che cosa dà significato alla loro vita in quanto persone e non come acquirenti di benefit” ; — “cerca di comprendere il valore identitario dei testi della cultura di massa, piuttosto che vedervi semplicemente trend e intrattenimento”. Fatta questa premessa, mi sembra evidente come una semiotica interessata a rimettere al centro degli studi sulla marca la nozione di cultura non possa sottrarsi a un confronto con gli approcci culturali al branding. Penso, nel campo degli studi semiotici, al lavoro di Laura Oswald3 che partendo dal modello del brand system di Aaker propone un modello alternativo, definito consumer brandscape, la cui premessa è che la cultura è un sistema semiotico complesso inseparabile dalla sua rappresentazione sotto forma di segni e simboli4 di cui i prodotti e le pratiche di consumo sono una manifestazione determinante. |
3 L. Oswald, Marketing Semiotics. Signs, Strategies and Brand Value, Oxford U.P., 2012 ; id., Creating Value. The Theory and Practice of Marketing Semiotics Research, Oxford U.P., 2015 ; id., Doing Semiotics. A Research Guide for Marketers at the Edge of Culture, Oxford U.P., 2020. 4 Cfr. C. Geertz, The Interpretation of Cultures, New York, Basic Books, 1973. |
Tornando alla questione centrale che poni, quella dello sforzo in ambito semiotico di provare a definire delle pratiche di analisi, credo sia dunque essenziale compiere una serie di azioni : — uscire definitivamente dal perimetro ristretto dell’analisi della testualità, della singola forma espressiva che può assumere l’identità di marca (spot, packaging, retail…) per esplorare la dimensione discorsiva dei brand che in un’ottica multichannel pone da tempo sfide tutt’altro che banali ; — dirigere l’analisi sulle forme culturalmente, socialmente e politicamente più rilevanti dei discorsi di marca. Penso in particolare al fenomeno ormai eclatante del brand activism, la presa di posizione dei brand su tematiche di rilevanza collettiva, che testimonia in modo ineludibile l’interdipendenza tra dimensione economica, sociale, politica che informa il nostro quotidiano ; — utilizzare tool che supportano l’analisi qualitativa dei commenti degli utenti senza i quali appare del tutto aleatorio ricostruire le logiche di produzione e circolazione della significazione ; — esplorare lo scenario delle forme espressive generate tramite artificial intelligence nella comunicazione di marketing, indagando il livello di consistency con i valori dei brand e, al contempo, tenendo conto delle tensioni culturali che polarizzano il dibattito pubblico. In sostanza, rimanendo nel gergo del marketing, mi sembra ci sia un certo spazio di manovra per posizionare nella ricerca sui consumi una prospettiva di semiotica della cultura orientata al marketing. Un approccio alla ricerca e alla consulenza impegnato a rendere conto dei meccanismi traduttivi sui quali si regge l’interdipendenza tra il sociale e la sua rappresentazione da parte dei brand, partendo da una concezione sistematica della cultura.
G. Ceriani. — Quello che tu scrivi mi dà l’occasione per affrontare un nodo a mio avviso ancora irrisolto ed è dunque davvero preziosa occasione di confronto. Hai parzialmente ragione quando dici che la semiotica che si è interessata alla marca ha ad oggi poco implementato i contributi della consumer culture theory che invece tu hai sempre sostenuto e diffuso, ma c’è una ragione di fondo che riconduce al nodo teorico della mia domanda. E questo nodo è quello relativo alla nozione stessa di cultura, di cui condividiamo certamente la definizione lessicale — quella dell’intreccio di fenomeni di molteplice natura che caratterizzano una civiltà, una comunità, una congiuntura — ma non la mancanza di prospettiva analitica, se ci fermiamo qui : che è quella, invece, propria all’approccio testualista e generativo della semiotica alla quale ho sempre riferito. Che non è, lo preciso, semiotica “della marca” o “dei consumi”, ma semiotica tout court, dove i core values del brand sono tutto fuorché “citazioni astratte” ma il punto d’arrivo / il precipitato di un’analisi situazionale che scava in senso differenziale le relazioni tra codici, che disarticola le prassi enunciative, che ripercorre le relazioni tra figuratività e astrazione, che legge anzitutto le dinamiche trasformative dell’argomentazione nel contesto della narratività. L’impressione è che parliamo di due semiotiche diverse, e se mi trovi d’accordo su quella a cui fai riferimento nella tua critica, non mi riconosco se riferisci invece a quella che pratico io. Vengo dunque nello specifico alle mie domande di approfondimento che, mi auguro, ci consentiranno di intraprendere un ulteriore movimento di confronto : — la testualità si innesta sull’analisi del discorso, perché dovremmo vederle come alternative ? Un testo è un intreccio di discorsi per i quali abbiamo strumenti di analisi linguistica, enunciativa, logica ecc... — il brand activism è una delle posizioni tematiche assunte dalla marca, investita da una necessità di compensazione di molti vuoti congiunturali : la sua rilevanza si inserisce nelle dinamiche tipiche delle tendenze, va studiata certo, ma perché più di altre ? — l’analisi qualitativa dei commenti degli utenti è parte delle pratiche della semiotica che si interessa di consumi da tempo (vedi il mio Marketing moving, 2009) ma perché sostituire agli strumenti dell’analisi generativa dei “tool”? Se per tool intendi software — nella mia esperienza del tutto insoddisfacenti e parziali — al posto degli strumenti di analisi semiotica generativa, poiché questi hanno tutt’altra sottigliezza ?
P. Peverini. — Grazie delle domande che mi danno l’occasione di chiarire alcuni punti che ritengo rilevanti. Quando sostengo che la semiotica che si interessa di brand (e non solo di una sua componente, la pubblicità, come molto opportunamente è evidenziato nella call di questo numero di Acta Semiotica) dovrebbe prendere in considerazione alcune delle acquisizioni della consumer culture theory non intendo affatto sostenere che sussista una piena assonanza sul piano epistemologico, teorico o metodologico, dal momento che mi sembra piuttosto evidente che l’orizzonte in cui quella prospettiva di ricerca si muove è quello dei cultural studies e non quello di una teoria della significazione. Intendo piuttosto evidenziare l’opportunità di uscire dalla tendenza, a mio avviso ancora piuttosto evidente nella semiotica contemporanea, a circoscrivere l’analisi alla dimensione della testualità e non della discorsività. Non mi riferisco certo al tuo lavoro, che ovviamente apprezzo, ma alla difficoltà della ricerca semiotica nel misurare la portata dei propri strumenti con uno scenario che appare oggi quanto mai complesso e dinamico. Di questo tema abbiamo parlato in un recente convegno presso l’università degli Studi di Modena e Reggio Emilia intitolato “Nuove forme di testualità nella comunicazione pubblicitaria : discorsi, pratiche e narrazioni” organizzato da Cinzia Bianchi, Marianna Boero e Ruggero Ragonese, a partire dal quale è stata lanciata una call for papers della rivista Ocula5. |
5 https://www.ocula.it/cfp.php?id=49#CfPtxt. |
Guardando al panorama della ricerca semiotica contemporanea, con alcune significative eccezioni (tra le quali il tuo lavoro), mi sembra evidente che la semiotica fatichi a esprimere la propria portata come disciplina orientata non solo all’analisi ma anche alla consulenza, ad accompagnare la propria vocazione alla critica dei discorsi di marca con le potenzialità di una strumentazione a supporto della gestione della marca. In questa prospettiva, su un piano internazionale, trovo ad esempio molto interessante il lavoro di Laura Oswald che, partendo da un confronto con il cultural branding di Douglas Holt e con i lavori di alcuni dei più autorevoli studiosi della cct (consumer culture theory) come Robert V. Kozinets e Russell W. Belk, arriva a elaborare un modello per la gestione strategica della marca di impostazione chiaramente semiotica come il consumer brandscape. La nozione di cultura gioca un ruolo determinante nella messa a punto di questo strumento di analisi e consulenza dei brand, non a caso Oswald cita, tra gli altri, la nozione di enciclopedia di Eco, la nozione di cultura in Lotman e la prospettiva di Clifford Geertz, misurando le potenzialità dello strumento con una serie di casi paradigmatici relativi a brand come Ford, Kodak, Coca-Cola, Halston. Credo sia opportuno misurarsi con questo genere di ricerca orientata alla consulenza che mira a rivendicare uno spazio specifico della prospettiva semiotica ma in dialogo con prospettive di analisi culturale dei fenomeni del consumo. Lo sforzo da fare in questo senso consiste piuttosto nel rivendicare la centralità di nozioni come quelle di testo, discorso e soprattutto di enunciazione (quest’ultima davvero poco utilizzata fuori dai confini della semiotica) per chiarire ad esempio la centralità dei meccanismi traduttivi nella formazione/evoluzione dei sistemi culturali. Insomma : Holt non cita Lotman né Eco, tanto meno Greimas, le accezioni con le quali utilizza termini come simbolo, icona, text si prestano a essere ampiamente discusse e approfondite nei termini della semiotica ma non per questo il suo lavoro sull’interdipendenza tra discorsi di marca e contesto sociale, culturale e politico appare di scarso rilievo. Evidenzio questo punto per giungere a rispondere alla tua domanda sul brand activism. Ritengo che questo fenomeno sia particolarmente rilevante per la ricerca semiotica, non penso che si tratti di una tendenza ma di un cambiamento in atto di portata molto ampia in cui l’interdipendenza tra dimensioni economica, politica, sociale e culturale assume una rilevanza inedita e strategica. Non è certo la prima volta che i brand prendono posizione su tematiche socialmente e politicamente rilevanti, ma l’attenzione che l’opinione pubblica e alcuni target (in particolare la Gen Z particolarmente attenta al reale impegno dei brand su questioni di rilevanza collettiva) riservano ai discorsi e alle azioni intrapresi dalle aziende per prendere posizione su tematiche di interesse collettivo manifesta un’intensità e una portata davvero notevoli6. |
6 Si veda C. Sarkar, P. Kotler, Brand Activism. From Purpose to Action, Chicago, Idea Bite Press, 2018. |
Poiché ritengo che la distinzione netta tra una semiotica pura e una applicata sia potenzialmente dannosa per la ricerca semiotica, credo inoltre che il brand activism sia un’occasione preziosa per analizzare la complessità delle strategie che muovono il tentativo dei brand di accreditarsi come attori credibili del cambiamento e al tempo stesso per mettere alla prova gli strumenti della ricerca sulla significazione con uno scenario che travalica ampiamente la testualità, manifestandosi sotto forma di una molteplicità di istanze dell’enunciazione, discorsi, pratiche. Non si tratta appunto, di una semiotica della marca o dei consumi ma di una semiotica tout court che come tale deve misurarsi con sfide tutt’altro che di poco conto. Come non tenere conto dei discorsi degli utenti nella formazione / circolazione degli effetti di senso connessi all’attivismo dei brand ? Come non prendere in esame la molteplicità di conflitti interpretativi e di comportamenti dei cittadini / consumatori sollecitati dai tentativi delle marche di misurarsi con le implicazioni di crisi geopolitiche, come quella dell’invasione da parte della Russia dell’Ucraina ? Per arrivare dunque all’altra domanda, quella relativa ai tool, chiarisco nuovamente la mia posizione : non ho mai sostenuto e non ritengo affatto che uno strumento per l’analisi delle conversazioni degli utenti debba sostituire l’analisi generativa della significazione, piuttosto credo che sia imprescindibile tenere conto delle reazioni espresse e condivise nel contesto digitale dagli utenti utilizzando anche strumenti che supportano l’analisi qualitativa ma che certamente non sostituiscono il ricercatore. Software come NVivo in questo senso facilitano il ricercatore nel coding del senso implicato nelle conversazioni e possono favorire il lavoro di individuazione di isotopie rilevanti (come del resto accade normalmente, lato brand, con azioni anche più superficiali di social media listening). La mia posizione, dunque, e ritorno qui al dibattito emerso nel convegno tenutosi a Reggio Emilia di cui sopra, è un invito a non chiudersi rispetto al potenziale supporto che i tool per l’analisi di dati (come ad esempio le conversazioni) possono fornire all’analisi semiotica.
G. Ceriani. — Eccomi a una domanda che vorrei costituisse l’oggetto del nostro prossimo approfondimento : a proposito dello scenario delle forme espressive generate tramite IA e alla necessità di analisi della loro relazione con la marca… molto d’accordo sul fatto che questo possa / debba rappresentare il fronte della prossima ricerca, ma mi piacerebbe insieme a te circoscrivere meglio l’ambito e gli strumenti, se dobbiamo pensare di fare riferimento ad altre modalità rispetto a quelle di cui sopra.
P. Peverini. — Arrivando a quest’ultima domanda, è evidente che l’intelligenza artificiale di tipo generativo stia producendo un impatto enorme sui brand, basti guardare al dibattito quanto mai acceso sui timori legati alla sostituzione di figure chiave come quelle dei creativi. Per la ricerca semiotica lo scenario che si profila è davvero molto stimolante e, nuovamente, mi consente di tornare su un punto che sollevi, quello cioè di pensare alla semiotica della marca e dei consumi come a una semiotica tout court, dunque come uno studio rigoroso sulla significazione e sulle sfide che la sua evoluzione pone sul piano innanzitutto della ricerca. |
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Uno degli stream sui quali stiamo facendo ricerca riguarda le strategie adottate da alcuni brand particolarmente noti e rilevanti per tematizzare limiti e potenzialità dell’IA, con particolare riferimento alla questione della naturalizzazione dei dispositivi che ne regolano il funzionamento, vale a dire della capacità di generare un effetto di senso di autenticità in grado di favorirne l’accettazione e l’ampia e rapida diffusione nelle pratiche della vita quotidiana7. A testimonianza dello spessore teorico delle questioni che emergono analizzando le forme espressive generate tramite IA, una nozione chiave è proprio quella di enunciazione che si presta a essere riletta, anche alla luce del dialogo tra il lavoro di B. Latour sugli oggetti tecnici e la ricerca semiotica post strutturalista, come una mediazione tra istanze (umane e non umane) dotate di diversi modi di esistenza, come delega di agentività8. L’enunciazione intesa come mediazione, dunque come un processo di trasferimento di agency è esattamente quanto accade con IA perché gli informatici sviluppano algoritmi e allenano l’IA con enormi dataset di contenuti preesistenti. Gli utenti (tra i quali gli stessi creativi) trasferiscono agency all’intelligenza artificiale impartendo un ordine, tramite prompt e ottengono un output che può essere oggetto di un’ulteriore elaborazione, dando forma a delle associazioni tra attori molteplici destinate a consolidarsi nel tempo. Che rapporto si instaura tra il complesso processo di enunciazione come delega di agentività tra istanze multiformi e la discorsività dei brand ai tempi dell’IA ? Partendo dalla considerazione preliminare che lo spessore simbolico di una marca, ciò che la rende un’icona, ovvero nella prospettiva della semiotica un “simbolo d’oggi”9, è l’esito della capacità di cogliere e tradurre tensioni sociali, culturali, politiche, economiche, quali sono i ruoli attanziali e tematici attribuiti all’intelligenza artificiale nei discorsi di marca ? Che genere di competenze vengono delegate dagli umani ai non umani ? Che forma assumono gli esiti di questo processo di traduzione che inevitabilmente consiste in un trasferimento di agentività di portata quanto mai ampia ?
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7 Sulla naturalizzazione dell’intelligenza artificiale come effetto di senso generato dall’utilizzo dell’ironia nell’advertising si vedano R. Eugeni, “The Post-advertising Condition. A Socio-Semiotic and Semio-Pragmatic Approach to Algorithmic Capitalism”, in G. Meiselwitz (ed.), Social Computing and Social Media. Communication and Social Communities, Cham, Springer, 2019. Per una riflessione sulle caratteristiche degli smart object e le sfide poste da questi dispositivi alla ricerca semiotica, cfr. R. Finocchi, A. Perri, P. Peverini, “Smart Objects in Daily Life : Tackling the Rise of New Life Forms in a Semiotic Perspective”, Semiotica, 236, 2020. 8 Cfr. P. Peverini, Bruno Latour in the Semiotic Turn. An inquiry into the Networks of Meaning, Cham, Springer, 2024. 9 Cfr. D. Mangano e F. Sedda (eds.), Simboli d’oggi, op. cit. |
G. Ceriani. — Mi chiedo allora se non ci sia un malinteso quando parli dell’opportunità di “uscire dalla tendenza, a mio avviso ancora piuttosto evidente nella semiotica contemporanea, a circoscrivere l’analisi alla dimensione della testualità e non della discorsività”. Nella scuola semiotica in cui sono cresciuta, probabilmente più vetero che post-strutturalista, questa distinzione non si dà : o meglio, non è una distinzione di oggetto ma di livello analitico, dove la discorsività regge la testualità. Premesso che certamente questo a te è ben chiaro, credo che l’osservazione sia da te rivolta piuttosto al cattivo uso del metalinguaggio, che chiede invece rigore terminologico e di sistema, almeno per quanto riguarda la semiotica generativa. Il problema, mi sembra, e ti chiedo se sei d’accordo, è che mancano basi rigorose di insegnamento semiotico, spesso orecchiato da manuali e da slide di seconda mano, lontano dalla frequentazione dei testi di base. E a me sembra che gran parte degli equivoci e dello spreco di risorse nasca proprio da qui, dall’impazienza con sui si crede di applicare una disciplina analitica che ha trovato nell’università collocazioni strumentali, spurie, piegate ad esigenze di palinsesto o di operatività veloce. La semiotica ha un’enorme potenziale operativo ma solo se applicata con disciplina, altrimenti è pourparler dannoso a se stessa e a chi la pratica.
P. Peverini. — Quello che intendo dire è che spesso percepisco il rischio che la semiotica applicata ai consumi venga circoscritta, soprattutto da chi non ha una formazione negli studi sulla significazione, alla sola dimensione della testualità pubblicitaria, alle singole forme espressive e alle identità visive, i loghi. Mentre credo sia utile e urgente ribadire che il potenziale della disciplina emerge proprio nella capacità di estendere l’analisi ai discorsi di marca, all’insieme delle forme espressive che la significazione di un brand assume nella sua circolazione sociale. Andando alla questione che sollevi, relativa all’insegnamento della nostra disciplina, si tratta di una questione complessa e dunque non generalizzerei. Se consideriamo oltre al panorama italiano quello internazionale lo scenario è quanto mai ampio e variegato, in alcuni casi quello che affermi può essere senz’altro vero, ma in diversi atenei l’insegnamento della semiotica poggia su basi (e manuali) rigorosi. Semmai il rischio che vedo, da tempo, è quello di un utilizzo estremamente superficiale della semiotica al di fuori dell’ambito della nostra disciplina, una questione che riguarda più in generale la dialettica con le scienze sociali. La questione del metalinguaggio è centrale ma una sfida non di poco conto consiste, a mio avviso, nel mantenere il rigore della disciplina sul piano metodologico, coniugandolo con l’esigenza di dialogare e misurarsi anche con studiosi e professionisti che provengono da altri ambiti disciplinari, tra i quali, ma non solo ovviamente, quello del marketing. Una delle sfide della ricerca semiotica contemporanea consiste nel misurarsi con prospettive di ricerca diverse ma non eludibili, e prendere posizione sul piano teorico e metodologico, in particolare a ribadire la piena legittimità e l’utilità strategica di un approccio qualitativo-culturale ai fenomeni sociali, compresa la sfera dei consumi.
G. Ceriani. — Sì, certo, non puoi non trovarmi d’accordo : ma allora il nostro lavoro dovrebbe essere, se non è già, quello di una rilettura delle problematiche di marketing e della loro sistematizzazione ingenua, catalogante e francamente, se posso, noiosa, per restituire competenza di comunicazione alla gestione della marca ovvero passare dall’elenco dei termini all’analisi dei concetti che li reggono, da quello delle metafore belliche e dagli efficientamenti quantitativi (che riducono ad esempio la pianificazione media a una questione tecnica, tecnologica e di KPI10, invece di considerarla nei suoi aspetti ben più sottili di relazione di senso tra veicolo e mezzo), alla qualificazione del patto comunicazionale e alla valutazione delle strategie di incrocio dei contenuti.
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10 Key Indicator Performance. |
P. Peverini. — Su questo punto sono pienamente d’accordo. Non a caso, il potenziale della semiotica si misura proprio nella capacità non solo di svelare la semplificazione che spesso si accompagna all’utilizzo di parole chiave tanto comuni quanto spesso utilizzate in modo acritico (basti pensare a termini come “viral”, “storytelling”, “influencer”), ma anche nella capacità di supportare la gestione della marca portando alla luce la complessità della correlazione tra dimensione economica, sociale, culturale e politica, offrendo soluzioni che travalicano ampiamente la dimensione della creatività pubblicitaria e che investono piuttosto questioni di posizionamento / riposizionamento valoriale dei brand.
G. Ceriani — Premesso che la distinzione netta tra una semiotica pura e una applicata è potenzialmente dannosa per la ricerca semiotica, noi parliamo di analisi degli effetti di senso, ed è tutto. Ritengo però che se si desidera parlare correttamente di ricerca semiotica, vanno rispettati i criteri minimi di pertinenza nella selezione del corpus e nell’impiego di un impianto di valutazione differenziale delle pertinenze che conducono all’identificazione valoriate. Mi chiedo / ti chiedo come questo possa conciliarsi con tecnologie recenti di analisi del contenuto (tu menzioni NVivo ma personalmente ne ho provate anche altre, come ad esempio Brand 24, sempre con risultati molto superficiali) o anche con una lettura interpretativa dei big data… se rinunciamo a definire il corpus e scegliamo di pescare nell’illimitato facciamo forse qualcosa di sfidante, ma di molto diverso e mio avviso strategicamente non rilevante. Detto questo, penso che ognuno debba fare il proprio mestiere, e che la competenza dell’analista di dati si debba confrontare e non sovrapporre a quella del semiologo.
P. Peverini. — Considerando la rilevanza che le opinioni degli utenti / consumatori rivestono per chi si occupa di gestire un brand e, più in generale, per il senso che questo assume in un contesto sempre più competitivo, ritengo che la semiotica non debba escludere a priori di misurare i propri strumenti con i contenuti circolanti online. A proposito dei criteri di pertinenza per selezionare un corpus testuale, pensiamo a fenomeni di portata decisiva per un brand come la reputazione. Per comprendere la complessità del fenomeno della reputazione di marca nel complesso ecosistema mediale attuale, selezionare e analizzare casi di successo e/o di fallimento generati dalla gestione della comunicazione è imprescindibile, ma per fare questo è essenziale tenere conto anche delle opinioni espresse e accessibili online, della loro articolazione, delle isotopie che le caratterizzano. Non si tratta, ovviamente, di delegare a un tool la costruzione di un corpus testuale né la comprensione del senso ma semmai di utilizzarlo per supportare le fasi di raccolta, classificazione e visualizzazione delle informazioni che spetta al ricercatore analizzare. Proprio per questo, tornando all’ultimo punto che sollevi, non credo affatto che il profilo di un analista di dati si sovrapponga a quello di un semiologo. Se nella pratica della ricerca, della didattica o della consulenza accade questo, spetta a noi svelarne l’inconsistenza.
G. Ceriani — Vorrei ritornare infine sul tema della naturalizzazione dei dispositivi che regolano la capacità dell’IA generare un effetto di senso di “autenticità”. Questo è certamente il tema centrale in questo momento, che si offre nella sua complessità a un confronto con gli strumenti che possediamo e con quelli che possiamo affinare : ma davvero credi che la questione sia anzitutto quella di una lettura delle reti attanziali e delle pratiche enunciative che le reggono ? A un dato livello, quella è probabilmente un’ottima lettura ma che si esaurisce in qualche modo nella gestione / delega dell’intenzione e dei suoi margini di azione. A me sembra invece che la nostra sfida sia meglio orientata, più proficua, se indirizzata a capire come funziona l’elaborazione creativa prodotta in ambienti immersivi, come la veridizione investa la figuralità e si ritraduca in una figuratività che produce forme rinnovate dell’immaginario. E qui la testualità è anzitutto visiva, e la sua concettualizzazione una volta di più ritmica perché basata su alternanze tensive che non sono solo dinamiche attanziali (lo sono anche) ma implicano livelli stratificati e ulteriori di gestione del senso.
P. Peverini — Lo sviluppo di forme di relazione sempre più stretta tra agenti umani e digitali ha assunto da tempo i tratti di una vera e propria coabitazione, dove l’esperienza di nuove tipologie di dispositivi, tanto intuitiva da apparire naturale, costituisce in realtà l’esito di un sofisticato processo commerciale di raccolta, elaborazione, utilizzo di dati in cui sono coinvolte entità molteplici tra loro concatenate, alcune delle quali, nonostante le apparenze, non sono in alcun modo riconducibili a categorie antropomorfe come “io”, “tu” o “egli”. In questa prospettiva, credo dunque che la questione — a mio avviso ineludibile per la semiotica — della co-enunciazione in gioco nella produzione dei contenuti mediati dall’intelligenza artificiale si riverberi su tutti i piani della significazione in oggetto. Quanto più si rivela complesso tracciare le entità multiformi implicate nella creatività mediata dai tool di intelligenza artificiale, tanto più appare rilevante analizzare le modalità attraverso le quali questo processo della significazione viene rappresentato all’interno di testi e discorsi, esibendolo o, al contrario, occultandolo. La nozione di veridizione, dunque, è senz’altro uno dei concetti chiave che possiamo impiegare per esplorare le due dimensioni strettamente interrelate dei discorsi dell’intelligenza artificiale e sull’intelligenza artificiale. Una delle sfide che interessano la semiotica del visivo è contribuire a individuare pattern ricorrenti nelle forme di creatività co-generate tramite l’utilizzo di strumenti di intelligenza artificiale ma teniamo conto dell’ampiezza del fenomeno che si estende ben al di là del visivo, basti pensare ai chatbot e all’intelligenza artificiale conversazionale. Per concludere, proviamo a tornare allora alla questione dell’insegnamento. Il dibattito quanto mai acceso sulle potenzialità e le minacce che caratterizzano l’impatto dell’intelligenza artificiale nella produzione di contenuti creativi rendono quanto mai evidente l’importanza di alimentare lo spirito critico, di allenare le capacità interpretative, un compito ineludibile che apre spazi di manovra proficui per i professionisti della semiotica. |
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Bibliografia Aaker, David A., Managing brand equity. Capitalizing on the value of a brand name, New York, Simon and Schuster, 1991. Ceriani, Giulia, Marketing moving : l’approccio semiotico. Analizzare il mix di comunicazione, gestirne gli effetti di senso, Milano, FrancoAngeli, 2009. Eugeni, Rugiero, “The Post-advertising Condition. A Socio-Semiotic and Semio-Pragmatic Approach to Algorithmic Capitalism”, in G. Meiselwitz (ed.), Social Computing and Social Media. Communication and Social Communities (11th International Conference, SCSM, Proceedings, Part II), Cham, Springer, 2019. Finocchi, Riccardo, Antonio Perri, Paolo Peverini, “Smart Objects in Daily Life : Tackling the Rise of New Life Forms in a Semiotic Perspective”, Semiotica, 236, 2020. Geertz, Clifford, The Interpretation of Cultures, New York, Basic Books, 1973. Holt, Douglas, How brands become icons. The principles of cultural branding, Harvard Business Review Press, Boston, 2004 ; tr. it., Cultural branding. Come i brand diventano icone, Roma, Luiss University Press, 2024. — e Douglas Cameron, Cultural strategy. Using innovative ideologies to build breakthrough brands, Oxford, Oxford University Press, 2010. Mangano, Dario, “Biglietti d’invito”, in D. Holt, Cultural Branding. Come i brand diventano icone, Roma, Luiss University Press, 2024. Oswald, Laura, Marketing Semiotics. Signs, strategies and Brand Value, Oxford, Oxford U.P., 2012. — Creating Value. The Theory and Practice of Marketing Semiotics Research, Oxford, Oxford U.P., 2015. — Doing Semiotics. A Research Guide for Marketers at the Edge of Culture, Oxfrod, Oxford U.P., 2020. Peverini, Paolo, “Coca Cola”, in D. Mangano e F. Sedda (eds.), Simboli d’oggi. Critica dell’inflazione semiotica, Milano, Meltemi, 2023. — Inchiesta sulle reti di senso. Bruno Latour nella svolta semiotica, Milano, Meltemi, 2023. — “Prefazione”, in D. Holt, Cultural Branding. Come i brand diventano icone, Roma, Luiss University Press, 2024. Sarkar, Christian, e Philip Kotler, Brand Activism. From Purpose to Action, Chicago, Idea Bite Press, 2018. |
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1 Cfr. P. Peverini, “Coca Cola”, in D. Mangano e F. Sedda (eds.), Simboli d’oggi. Critica dell’inflazione semiotica, Milano, Meltemi, 2023 ; id., “Prefazione”, in D. Holt, Cultural Branding. Come i brand diventano icone, Roma, Luiss University Press, 2024. D. Mangano, “Biglietti d’invito”, ibid. 2 D. Holt, How brands become icons. The principles of cultural branding, Harvard Business Review Press, Boston, 2004. D. Holt e D. Cameron, Cultural strategy. Using innovative ideologies to build breakthrough brands, Oxford, Oxford U.P., 2010. 3 L. Oswald, Marketing Semiotics. Signs, Strategies and Brand Value, Oxford U.P., 2012 ; id., Creating Value. The Theory and Practice of Marketing Semiotics Research, Oxford U.P., 2015 ; id., Doing Semiotics. A Research Guide for Marketers at the Edge of Culture, Oxford U.P., 2020. 4 Cfr. C. Geertz, The Interpretation of Cultures, New York, Basic Books, 1973. 5 https://www.ocula.it/cfp.php?id=49#CfPtxt. 6 Si veda C. Sarkar, P. Kotler, Brand Activism. From Purpose to Action, Chicago, Idea Bite Press, 2018. 7 Sulla naturalizzazione dell’intelligenza artificiale come effetto di senso generato dall’utilizzo dell’ironia nell’advertising si vedano R. Eugeni, “The Post-advertising Condition. A Socio-Semiotic and Semio-Pragmatic Approach to Algorithmic Capitalism”, in G. Meiselwitz (ed.), Social Computing and Social Media. Communication and Social Communities, Cham, Springer, 2019. Per una riflessione sulle caratteristiche degli smart object e le sfide poste da questi dispositivi alla ricerca semiotica, cfr. R. Finocchi, A. Perri, P. Peverini, “Smart Objects in Daily Life : Tackling the Rise of New Life Forms in a Semiotic Perspective”, Semiotica, 236, 2020. 8 Cfr. P. Peverini, Bruno Latour in the Semiotic Turn. An inquiry into the Networks of Meaning, Cham, Springer, 2024. 9 Cfr. D. Mangano e F. Sedda (eds.), Simboli d’oggi, op. cit. 10 Key Indicator Performance. |
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______________ Mots clefs : culturel vs textuel, marketing, marque. Auteurs cités : David A. Aaker, Douglas Holt. |
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Recebido em 11/12/2023. / Aceito em 21/05/2024. |