Bonnes feuilles

L’utilità del senso comune

Anna Maria Lorusso
Bologna, il Mulino, 2022, 168 p.

 

Publié en ligne le 23 décembre 2023
https://doi.org/10.23925/2763-700X.2023n6.64723
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Introduzione

“Il buon senso è al mondo la cosa meglio distribuita”. Con questa certezza, Cartesio apre il suo Discorso sul metodo, e a partire da questa sicurezza pone al centro della sua impresa filosofica la questione del metodo. Se il buon senso è una facoltà comune ed eguale in tutti gli uomini, perché coincide con la ragione stessa, tuttavia ad alcuni uomini capita di sbagliare e perdere la strada, e ognuno si perde a proprio modo ; per questo si deve vigilare affinché ciascuno proceda correttamente, e a questo serve il metodo, da cui il Discorso : il buon senso va ben applicato.

Un metodo è uno strumento pragmatico : un insieme ordinato di regole che — quando ci si muove in un territorio non governato dalla logica formale (e la nostra vita quotidiana non è chiaramente regolata dalla logica formale) — ci accompagna per articolare giudizi corretti. A leggere Cartesio, il buon senso serve a distinguere il vero dal falso, ma è esperienza quotidiana vedere come il buon senso serva anche, se non soprattutto, a stabilire cosa è giusto e cosa non lo è, cosa è fattibile e cosa non lo è, cosa è appropriato e cosa non lo è. E nel discriminare, nel distinguere, nel giudicare, il buon senso fa i conti col senso comune, il sentire condiviso, la rete di certezze ereditate e consolidate dall’abitudine entro cui ciascuno di noi vive. Spesso il buon senso pretende di essere tutt’uno col senso comune, anche se Manzoni, nel capitolo xxxii dei Promessi sposi, scriveva : “Il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”. La convergenza fra le due categorie, insomma, non è per tutti scontata. Nella visione di Manzoni, il senso comune, in quanto vox populi, sembra essere massimalista, semplificante, poco articolato, laddove il buon senso sembra avere una maggiore sensibilità alle circostanze : valuta e discrimina. Se il senso comune emerge come l’insieme di credenze di una certa comunità — banali, ovvie, parziali, talvolta pregiudiziali — il buon senso funziona invece da istanza di giudizio, più equilibrato, più accorto, a suo modo intelligente.

Chiarire la differenza (e le zone di sovrapposizione) tra senso comune e buon senso si impone dunque subito come una priorità di questo libro, in un terreno che è altamente scivoloso : senso comune è talvolta sinonimo di senso tout court, altre volte è sinonimo di buon senso, altre volte è semplice sinonimo di banalità, nella sovrapposizione possibile fra senso comune e luogo comune.

 

Nelle pagine che seguiranno parleremo di buon senso come di una facoltà, una capacità — equamente distribuita, come dice Cartesio — che attende di essere esercitata ; si esprime nella prassi, nelle occasioni : tutti ce l’abbiamo, in potenza, ma si attiva nelle singole circostanze. E richiede un metodo, deve seguire una certa via per poter concludere valutazioni plausibili, ragionevoli : non è garantita metafisicamente da una qualche corrispondenza fra ordo rerum e ordo idearum. Le regole di questo metodo hanno a che fare con alcuni criteri regolativi (senso del limite, capacità di articolazione e distinzione, adeguatezza ecc.), che ne definiscono contemporaneamente l’utilità e la parzialità. Deleuze ha detto, con espressione icastica : “il buon senso è agricolo (…) inseparabile dalla installazione di recinti”1. Esso entra nella determinazione del senso, nella sua delimitazione per farci orientare nella vita : non è una facoltà creativa, non è facoltà che apre orizzonti e inventa possibilità ; è facoltà che discrimina, delimita e su questa base ci aiuta a decidere (non ci sembra comunque poca cosa). Di questa capacità, che è individuale, il senso comune è l’orizzonte (sovraindividuale) di riferimento e legittimazione. Il senso comune è l’insieme di valori, credenze, abiti interpretativi, fuori discussione all’interno di una certa comunità. Difficile pensare un esercizio di buon senso che prescinda o tradisca il senso comune ; il buon senso trae da lì i suoi parametri, i suoi valori, i suoi modelli. Ma tale interdipendenza non li rende sinonimi : l’uno (il buon senso) è una facoltà, l’altro (il senso comune) un patrimonio di sapere.

1 G. Deleuze, Logica del senso (1969), Milano, Feltrinelli, 2019, p. 73.

Se il senso comune, come vedremo, appartiene alla rete di sapere di una cultura, il buon senso è la capacità individuale che da quel sapere deriva : ne è dunque una sorta di applicazione soggettiva.

Come emergerà dalle pagine che seguono, a noi interessa più il senso comune del buon senso, ritenendo il primo fondativo rispetto al secondo. E ci interessa di più perché è lì, a nostro avviso, che emergono alcune dimensioni essenziali del funzionamento sociale del senso, tra diacronia e sincronia, tra individualità e socialità, tra condizionamento e libera interpretazione, tra normatività e semplice abitudinarietà. Entrambi, comunque — senso comune e buon senso — pongono al centro del funzionamento sociale del senso un principio : un criterio di appropriatezza e adeguatezza. Ma rispetto a cosa ?

Su questo ci interrogheremo nelle pagine che seguono. A cosa si commisura il senso comune ? Quale misura lo legittima e quale misura richiede ? E con quale metodo è possibile attenersi alla giusta misura del senso comune ? Fin da subito ci porremo sul terreno dello scambio sociale e delle dinamiche concrete in cui senso comune e buon senso ricorrono. Consapevoli di muoverci in uno spazio che non è quello della logica formale, ci chiederemo se esista la possibilità (e l’opportunità, in certi casi) di fare a meno del senso comune, per elaborare forme di sapere più articolate e logicamente più giustificate. O è solo ingenuo pensare di prescindere dal senso comune ? Sappiamo che c’è un’ampia tradizione che vede nel senso comune una forma di conoscenza degradata, priva di rigore.

È chiaro che, ponendoci queste domande, non vogliamo assumere una prospettiva regolativa — cosa dovrebbe succedere, come si dovrebbe fare, a cosa dovremmo tendere — ma al contrario una prospettiva teoretica e analitica sul nostro quotidiano : come funziona, nella vita ordinaria, il senso comune, cosa lo legittima, come si esprime, attraverso quali voci parla.

Per farlo, articoleremo un percorso in tre parti : una prima parte teoretico-archeologica (sui modelli epistemici che le teorie del senso comune hanno proposto), una seconda osservativa (con alcuni casi tratti dalla nostra contemporaneità), una terza interpretativa (in cui proporremo una lettura semiotica del senso comune, vedendolo come filtro e piano di riferimento di qualsiasi atto interpretativo). Se la prima parte, attraverso alcuni modi in cui l’Occidente ha definito il senso comune, ci servirà a portare in evidenza alcuni suoi tratti salienti e alcune sue funzioni essenziali, la seconda — che abbiamo definito “osservativa” — funzionerà, con un evidente scarto di registro, da momento di scontro con la banalità della vita ordinaria. Non sarà un momento di verifica (delle tesi presentate in precedenza), ma un momento di apertura : se non avranno esattamente lo statuto di “atti sorprendenti” à la Peirce, da cui derivare abduzioni, i casi che presenteremo avranno tuttavia la natura di “fatti opachi e densi”, “giochi profondi” direbbe Geertz2, che sollevano ulteriori questioni, rispetto a quelle già emerse nella parte teoretico-archeologica. Per questo, dicevo, non saranno case analysis che verificano e confermano, ma osservazioni che aprono ulteriori riflessioni. Tali riflessioni saranno quelle della terza parte, dove vedremo teorie contemporanee del senso, di area prevalentemente semiotica, utili ad aggiornare il nostro sguardo sul senso comune.

2 L’antropologo Clifford Geertz parla di “gioco profondo” in riferimento ad alcuni comportamenti, riti, giochi propriamente detti, che sintetizzano ed esprimono la rete di ruoli, valori, contrasti che caratterizzano la struttura profonda di una cultura. In particolare, lo utilizza in riferimento al combattimento dei galli che osserva nella società balinese. Cfr. C. Geertz, Interpretazione di culture (1973), nuova ed. Bologna, Il Mulino, 2019, pp. 365 ss.

Nella parte iniziale, prima di osservare i casi concreti, indicheremo alcuni dei modi possibili di intendere la categoria di senso comune. Non vogliamo elaborare un compendio delle teorie sul senso comune e il buon senso, una panoramica delle varie posizioni della filosofia occidentale su questi due problemi, anche perché tali questioni hanno attraversato non solo la filosofia, ma anche le teorie della percezione, la psicologia (specie nella sua declinazione di folk psychology), la psichiatria, la politica, e troviamo teorie del senso comune in sociologia, antropologia, media studies, studi metafisico-teologici ecc. : troppo (e forse non è un caso che una “storia del senso comune” non esista). Indicheremo, però, alcuni modelli di comprensione del senso comune, articolandoli intorno a tre nodi concettuali : senso comune e conoscenza ; senso comune e linguaggio ; senso comune e abitudini. Emergerà così come, anche storicamente, l’analisi del senso comune abbia comportato il passaggio da una valutazione che poneva l’accento sugli aspetti gnoseologici, intesi in una forma ancora tendenzialmente individualistica o che comunque prescindeva dalla considerazione degli aspetti di interazione sociale, a una modalità interpretativa che, facendo riferimento a contesti diversi (sociologico, antropologico, semiotico), privilegia invece questi aspetti.

È, del resto, proprio la categoria di interpretazione quella intorno a cui, a poco a poco, ci focalizzeremo. L’interesse, la competenza e la sensibilità con cui guardiamo al senso comune sono, da questo punto di vista, irriducibilmente semiotici. Nella seconda e terza parte vogliamo infatti porci un interrogativo squisitamente semiotico sul senso comune e sul buon senso che ne deriva, ovvero : in che modo senso comune e buon senso ci fanno interpretare il mondo. In che modo guidano o deviano o formano le nostre credenze sul mondo — sapendo che le credenze (come sostiene un autore caro a tanta semiotica, che è Peirce) non sono astratte interpretazioni ma massime pragmatiche, disposizioni ad agire. Secondo quali criteri, secondo quale misura, in quale spazio di gioco ci accordiamo, all’interno delle nostre comunità, intorno a certe interpretazioni del mondo.

Alcune parole chiave, in questo percorso, saranno di orientamento e approdo : disposizione — abitudine — mediazione — limite — norma — comunanza. Non segneranno il percorso nel suo ordine di progressione, ma lo attraverseranno ritornando più volte a definire i contorni di una certa idea di semiotica della cultura che vogliamo qui praticare.

Perché iniziare dalla categoria di disposizione ? Perché in molte teorie il senso comune è innanzi tutto una disposizione naturale, talvolta un vero e proprio senso, vale a dire un organo che ha a che fare con la percezione. Si tratterà di capire in che modo questo senso si rapporti agli altri, in che modo si rapporti ai livelli più elaborati della teoresi e della cognizione e come si passi dal senso comune come facoltà sensibile al buon senso come facoltà di giudizio.

Non possiamo però pensare che sia solo questione di facoltà individuali. Il nodo che lega senso comune e linguaggio lo mette immediatamente in evidenza, e tanti sono gli elementi sociali di cui senso comune e buon senso sono intessuti : stereotipi, impliciti, tradizioni, automatismi che si perdono nella memoria dei corpi sociali… Per questo non potremo prescindere da un confronto col tema delle abitudini, intese come espressioni di disposizioni contemporaneamente individuali e sociali, e col tema delle tradizioni, intendendo per “tradizioni” non necessariamente qualcosa di narrativamente strutturato, ma più semplicemente ciò che viene trasmesso (per via non biologica) all’interno di un gruppo, che si deposita in esso e va a nutrire un orizzonte implicito di riferimento. Il senso comune e il buon senso non sono per sempre e ovunque gli stessi : sono situati e abitudinari.

Raccogliendo alcuni suggerimenti tanto dalle teorie che vedono il senso comune come disposizione, quanto da quelle che lo vedono come insieme di conoscenze comuni, emergerà con evidenza come il senso comune offra anzitutto delle mediazioni, ovvero delle rappresentazioni che orientano le dinamiche interpretative degli individui. Attraverso una disamina della teoria enciclopedica di Umberto Eco, vedremo come il senso comune possa essere utilmente pensato come organon : non disposizione naturale, non deposito di sapere, ma strumento, risorsa e apparato attivo di interpretazioni.

Proprio in ragione del filtro di mediazione del senso comune, le interpretazioni ricevono dei limiti, si trovano a dover rispondere a dei criteri che ne limitano la potenziale apertura incondizionata. Questo aspetto emergerà molto chiaramente attraverso gli esempi di effrazione presentati nella seconda parte : casi di frizione, scontro e forzature sociali che, nella loro modalità polemica, fanno emergere proprio la questione della trasgressione di un limite. Pensiamo a certe azioni ispirate alla politically correctness, altre riconducibili alla cosiddetta cancel culture, casi di informazione che hanno turbato la sensibilità pubblica e messo in crisi le deontologie professionali. Il senso comune non produce discorsi espliciti ma, quando contraddetto, emerge come un inchiostro simpatico che si fa patente, ed evidenzia i limiti del dicibile, i limiti del guardabile, i limiti dell’edibile…

Il legame fra senso comune e normatività sarà un altro punto centrale. Passando per la regolarizzazione di certe abitudini interpretative, il senso comune assume il ruolo di limite della sfera pragmatica : fissa ciò che è fattibile e ciò che è anomalo, o inadeguato, o scorretto. Non detta legge, ma regola la normalità, la definisce.

Così facendo, istituisce anche un orizzonte di condivisione nei soggetti che a questa regolazione si sottopongono. E il percorso del libro terminerà proprio sull’idea di comunanza : in epoca di sfiducia generalizzata (nelle istituzioni, nel sapere, nelle gerarchie, nella politica) forse tornare a legittimare un’idea piena, non teoreticamente degradata, di senso comune potrebbe servire a ridefinire il campo di un possibile orizzonte sociale, dove singolarismi e unanimità suonano entrambi fuori luogo. Tra l’universale e l’individuale, forse c’è una dialettica possibile e non riduttiva, che rimanda al generale e al condiviso. Forse sta nella possibilità di una comunanza l’utilità del senso comune, che dà il titolo a queste riflessioni.

 

Prima di chiudere queste poche pagine introduttive, un chiarimento sulle ragioni del libro.

Ogni percorso di ricerca nasce ovviamente da curiosità di lunga data e spinte contingenti. In questo caso, la curiosità di lunga data riguarda la dimensione delle retoriche sociali — ovvero di quelle strategie che a livello collettivo (non in testi artistici personali o interventi d’autore) si mettono in atto per attenuare, magnificare, aggirare, eufemizzare contenuti percepiti come scomodi (memorie traumatiche, discriminazioni subìte, tabù che sembrano inaggirabili). Questa è una delle lenti con cui è possibile leggere le pagine che seguono, una delle domande che lo ha mosso. La costruzione di un piano di senso comune e il ricorso discorsivo ad esso rappresentano due strategie retoriche cruciali per la gestione della nostra vita collettiva.

Le spinte contingenti derivano invece dal mondo dell’informazione e della politica degli ultimi anni : politici che invocano una “rivoluzione del buon senso”, fake news che smentiscono le più banali certezze di senso comune, comportamenti e manifestazioni che sembrano contravvenire a ogni razionalità… In questi anni siamo stati messi di fronte a una specie di ricorrente sfida al senso comune.

Pensare a una certa fenomenologia del tempo presente come all’esito di una progressiva svalorizzazione dell’importanza del senso comune, a vantaggio di un individualismo che sempre più insegue l’eccentrico, è un’altra delle lenti con cui leggere le pagine che seguono e mi piacerebbe che questo libro fosse letto anche come una riflessione filosofica e semiotica sull’attualità. A suo modo, un libro di intervento.

 


1 G. Deleuze, Logica del senso (1969), Milano, Feltrinelli, 2019, p. 73.

2 L’antropologo Clifford Geertz parla di “gioco profondo” in riferimento ad alcuni comportamenti, riti, giochi propriamente detti, che sintetizzano ed esprimono la rete di ruoli, valori, contrasti che caratterizzano la struttura profonda di una cultura. In particolare, lo utilizza in riferimento al combattimento dei galli che osserva nella società balinese. Cfr. C. Geertz, Interpretazione di culture (1973), nuova ed. Bologna, Il Mulino, 2019, pp. 365 ss.

 

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