In vivo — Miroirs du stade

Ventidue giocatori in cerca d’autore :
l’imprevedibile e la grammatica
del racconto

Guido Ferraro
Università di Torino

 

Publié en ligne le 30 juin 2023
https://doi.org/10.23925/2763-700X.2023n5.62466
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1. Partite di calcio e curiosità semiotiche

L’idea di queste riflessioni è nata qualche mese fa, mentre come tanti seguivo qualche partita dei campionati del mondo di calcio in Qatar. Un semiotico, si sa, non smette mai di essere “in servizio”, sicché — maledizione o dono divino che sia — ci capita di incuriosirci delle cose più varie, ponendoci interrogativi che poggiano, s’intende, sulle nostre specifiche competenze disciplinari. Interrogarsi sullo statuto semiotico di una partita di calcio può forse apparire strano, o quanto meno un po’ futile, rispetto ad altri argomenti. Di sicuro non è un’idea originale, giacché c’è chi ha già svolto studi impegnativi su temi di questo genere1 ; si tratta poi di un argomento più volte citato negli anni magici dell’esplosione degli studi semiotici, quando si diceva (senza quasi mai farlo davvero) : ecco, ad esempio, si potrebbe studiare una partita di calcio dal punto di vista della sua costruzione come testo narrativo !

1 Cfr., tra l’altro, P. Cervelli, L. Romei e F. Sedda (a cura di), Mitologie dello sport. 40 saggi brevi, Roma, Nuova Cultura, 2010 ; P. Demuru, Essere in gioco, Bologna, Bononia University Press, 2014.

A prima vista, sembrerebbe trattarsi di un’operazione quasi banale : abbiamo davanti a noi Soggetto e AntiSoggetto, prove da conseguire, sanzioni, vittoria (o sconfitta) finale... Ma questo vale forse soltanto al primo sguardo. Non è banale, tra l’altro, il rapporto tra la dimensione del gioco e quella del racconto : trovo intrigante il modo in cui la fruizione di un evento sportivo acquisisce da un lato caratteri che la avvicinano a quelli della lettura di un romanzo, mentre per altri versi s’inserisce nel flusso degli eventi che viviamo nella dimensione quotidiana. A dispetto del fatto che quei giocatori sgambettino su un prato molto lontano da me, e senza che io possa in alcun modo prendere parte al gioco, la visione di un evento sportivo di questo tipo, caratterizzato da una fruizione simultanea e ampiamente condivisa con milioni di altri spettatori, assume valori decisamente diversi da quelli di un classico testo narrativo, includendo anche rilevanti dimensioni d’ordine sociale e rituale. E se un tempo la collocazione necessariamente locale degli incontri coinvolgeva più fortemente gli spettatori nella dimensione antagonistica, oggi una diffusione mediatica globalizzata tende a valorizzarne la natura più propriamente spettacolare — con tratti, direi, che l’avvicinano un po’ alla fruizione di un evento teatrale.

In termini più tecnici, è indubbiamente interessante l’analisi dei modi in cui si possono tradurre le fasi del gioco in configurazioni narrative : che ruolo hanno le scorrettezze sanzionate dall’arbitro e quelle invece forse a torto ignorate, che valore assegnare alle azioni condotte in solitaria quando magari sarebbe stato più opportuno condividerle con i compagni di squadra, come intendere in termini di funzioni narrative l’efficacia delle finte di gioco, o quale senso riconoscere a una rete mancata quando era “quasi fatta”, e così via ? E poi c’è la questione relativamente complessa dei ruoli : pensiamo al rapporto tra i singoli giocatori e il tutto della squadra, tra chi gioca sul campo e chi ne regge la correttezza formale, nei termini diremmo deontici di un non-dover-fare— ruolo oggi significativamente suddiviso tra la figura di un controllo in certa misura soggettivo (l’arbitro) e quella in teoria più impersonale del VAR. Diverso è poi il rapporto tra il ruolo di chi gioca sul campo e l’autorevolezza del “mister” che da bordo campo fornisce un sapere guida sugli sviluppi tattici, e insieme esercita una sorta di capacità di regolazione patemica (con incitamenti, volta a volta, a mantenere freddezza, a reagire, ad attaccare con tutte le forze, e così via).

In prospettiva di approfondimenti teorici, aggiungerei che tali scontri fra due squadre “avversarie” ci offrono materiale per approfondire la reversibilità (qui davvero perfetta) tra il lato del Soggetto e quello dell’AntiSoggetto. Basta in effetti sedersi tra due rappresentanti delle opposte tifoserie per poter raccogliere molti appunti su come la definizione narrativa di un certo episodio venga a capovolgersi nella definizione propria alla prospettiva opposta. Non si tratta solo dell’inversione di una vittoria in una sconfitta, di una prova superata in una prova fallita, di una giustizia conseguita in un’ingiustizia subita, ma anche ad esempio dell’inversione di una virtualità sfumata in una paura vissuta. Sono configurazioni sintattiche dotate anche di una certa sottigliezza e — considerando quanto poco siano stati studiati, nel quadro dell’elaborazione di forme narrative, i meccanismi di rovesciamento e le modalità d’incrocio tra prospettive diverse — si tratta in effetti di un materiale d’effettiva rilevanza teorica.

Tuttavia, le principali curiosità che questi incontri di calcio mi hanno personalmente suscitato sono in parte diverse, e conducono al taglio, forse più attuale, che seguirò in questo scritto. Premesso che, nei miei studi in teoria della narrazione, ho dedicato speciali attenzioni al ruolo centrale dei dispositivi generativi, il nocciolo della questione potrebbe, in estrema sintesi, essere quello della possibilità stessa di dare adeguata rappresentazione al dispositivo chiamato a generare l’assetto sequenziale di una partita di calcio. Potremmo forse, e in quali termini, mantenere qui il principio per cui l’inizio di un racconto è generato a partire dalla fine ? Potremmo forse dire che la definizione dei passi specifici della vicenda discenda da un disegno d’insieme collocato a livello profondo ? Come potremmo seguire le strade che ci sono abituali, di fronte a un racconto la cui fisionomia può mutare imprevedibilmente ad ogni momento, e che dunque ci sembra non seguire alcuno schema compositivo, né obbedire alla logica di una qualche definita grammatica narrativa ? Ci viene da chiederci, insomma, se non fosse stata in effetti azzardata la vecchia idea di studiare una partita di calcio come se si trattasse di un normale testo narrativo. O, forse, dovremmo fare i conti con aspetti che la teoria della narrazione potrebbe avere per troppo tempo trascurato, e imparare magari a riconoscere il modo d’agire di una qualche differente logica compositiva.

Ci coglie, quanto meno, un certo disorientamento. Forse perché siamo abituati al fatto che ogni testo assicuri, per assioma, la presenza di una definita struttura di senso, sicché il nostro consueto lavoro d’analisi si fonda su tale implicito presupposto. Le eccezioni potrebbero apparire trascurabili. Ad esempio, possiamo ricordare d’avere visto, in passato, dei pretesi “romanzi” dalla struttura narrativa estemporanea, composti addirittura da fogli separati rimescolabili a caso, ma li abbiamo scartati come giochi intellettuali di scarso interesse. Di una partita di calcio, invece, apprezziamo proprio il fatto che nessuno possa conoscerne in partenza sviluppi e risultato : se pure ne fruiamo al modo di una narrazione, sì tratta però di qualcosa che prende la sua forma nel momento stesso in cui vi assistiamo, quasi improvvisazione davvero priva di un copione, e anzi priva d’autore.

2. Una civiltà del prevedibile ?

Devo dire a questo punto che le mie curiosità sull’argomento precedono i mondiali di calcio, avendo preso le mosse da un articolo che avevo trovato sulle pagine di una rivista seria e blasonata, di norma impermeabile a temi frivoli, quale The Economist. L’articolo in questione, pur introducendo argomentazioni discutibili, incontrava un tipo di curiosità teorica che mi accompagna da tempo — un tipo di curiosità che, va aggiunto, non solo si lega ai miei approfondimenti in campo di teoria della narrazione, ma che si è presentato anche, ad esempio, in occasione di studi in ambito di espressione visiva (fotografica, in particolare). Il punto cruciale consisteva, secondo l’autore di quell’articolo, nel turbamento derivante dal dover constatare l’atteggiamento di molte persone nei confronti dell’irregolarità e dell’imprevedibilità di quanto accade. L’evento scatenante era rappresentato dal fatto che una squadra di calcio di secondo piano come il Leicester City avesse vinto, sorprendentemente, il maggior campionato britannico, forse il più prestigioso del mondo. Per la verità, il numero dell’Economist del 7 maggio 2016 dedicava a tale evento ben due articoli, del tutto indipendenti. L’uno, collocato nella sezione Business, invitava il mondo degli affari a trarre lezioni dai metodi di management e di leadership usati dai dirigenti di quella squadra. In tale prospettiva, comprendiamo, l’evento ha valore proprio in quanto può diventare lezione, cioè modello replicabile. Ma quello che a noi più interessa è l’altro articolo, collocato dal suo occhiello in un’area narrativa certo inconsueta per quella testata : Fairy tales. Il titolo è piuttosto chiaro : Underdogs are overrated ; gli sfavoriti, potremmo dire quelli che per loro natura sarebbero destinati alla sconfitta, sono sopravvalutati. Il testo si apre con un’osservazione critica che potrebbe certo sollevare considerazioni anche semiotiche : “I britannici [noi aggiungeremmo, non solo loro] amano stare dalla parte di chi è sfavorito”, tanto che molti si sono appunto rallegrati per la vittoria totalmente inattesa di questa squadra minore. L’articolista ammette, certo, la comprensibile gioia dei tifosi del Leicester, ma tratta molto negativamente tutti gli altri : perché voler applaudire l’accadere di quello che non era logico e presagibile che si verificasse ? Rallegrarsi nel constatare l’invalidazione delle previsioni, ci spiega, è una strada che porta a forme impoverite di pensiero. Segue un’altra nota che interessa chi si occupi di teoria della narrazione : questo modo di vedere, leggiamo, incoraggia le persone a dare più valore alla qualità del racconto rispetto all’auspicabilità dei risultati, ciò che condurrebbe ad accantonare quella che è una delle più grandi conquiste della civiltà : la prevedibilità.

 

Noto, di passaggio, che questo tipo d’argomento ha anche, in semiotica, un antenato lontano, nel non dimenticato articolo di Roland Barthes intorno al fascino esercitato da quei fatti di cronaca la cui base logica appare carente2. La semiotica ha peccato, a mio parere, nel non approfondire ulteriormente questo tema, ma il nostro giornalista ha in proposito una sua significativa teoria. I narratori di fiabe, osserva, affascinano con i loro racconti ove un personaggio dotato di particolari qualità positive ha la meglio su ogni circostanza avversa ; di fatto, però, stanno barando al gioco, perché la vita reale non funziona così. Nel mondo reale non vincono necessariamente i portatori di qualità positive — cita qui come esempi l’ascesa della Corea del Nord o il successo di Donald Trump (all’epoca ancora solo inopinatamente candidato alla presidenza), ma avrebbe anche potuto ricordare, per fare un altro esempio, l’imprevedibilità della scelta dei cittadini inglesi per la Brexit.

A questo punto diventa anche troppo facile ironizzare, non solo sulla pretesa di costringere i narratori di fiabe a un assoluto verismo, ma soprattutto sull’impressione che sia in effetti proprio il giornalista a desiderare un “mondo delle favole” confortevolmente prevedibile — un mondo, immaginiamo, dove gli analisti della finanza azzeccano regolarmente i loro pronostici, dove gli inglesi scelgono razionalmente di restare in Europa, e gli americani votano assennatamente tutti per Hillary Clinton. Un mondo dove mai e poi mai, s’intende, una squadra minore potrebbe vincere il campionato ! Ma, ci chiediamo, un organo d’informazione, piuttosto che indispettirsi per ciò che avviene, non dovrebbe impegnarsi a spiegare i fatti, qualunque essi siano — magari mostrando anche che, a guardar bene, questi non erano poi così imprevedibili come sembravano ? Alla fine tocca dunque a noi spiegare, a quegli economisti che sognano un mondo così razionale e prevedibile, che no, la vita reale non funziona così. Al di là della facile ironia, è interessante osservare come l’esperto di teoria economica si trovi in difficoltà, stretto tra la negazione di un “mondo fiabesco” in cui gli eventi varrebbero come manifestazione di sottostanti valori profondi, e l’insussistenza di un universo ove il successo arriderebbe, con prevedibile regolarità, a chi ne ha i giustificati motivi. Né razionalità etica, né razionalità pragmatica ; la “realtà” segue un’altra strada — non così prevedibile, appunto.

Il tema, non della prevedibilità in quanto tale ma dell’effetto di prevedibilità (che implica poi effetti di ragionevolezza e sensatezza, forme logiche d’argomentazione e così via) è certo di grande interesse, e insieme di grande complessità. Ne sfioriamo, in questa sede, soltanto alcuni aspetti. E torniamo allora alle emozioni di chi stia seguendo una gara di calcio dall’esito incerto.

3. Il ruolo della componente accidentale

Considero ad esempio le emozioni che provavo quando seguivo l’incontro decisivo tra la Francia favorita, che apprezzavo per il suo gioco elegante e spettacolare, e l’emozionante Marocco, che aveva comunque saputo portare un Paese africano a un livello d’inaspettato successo : per chi dovrebbe propendere la nostra simpatia, laddove gli indubbi meriti sportivi vengono a scontrarsi con le ragioni di una rivalsa etnica carica di significati ? Quando non si ha una squadra per cui fare il tifo (quella del mio Paese, ai mondiali non era neppure stata ammessa), si seguono le partite come un testo intrigante che lavora su opposizioni valoriali anche complesse. E lo spettacolo assume spesso la forma di un rovesciamento continuo : ora sembra che siano gli uni a dover segnare il punto decisivo, ora gli altri a riaprire le sorti della partita. Ci troviamo di fronte a una vicenda eccitante perché priva di finali prestabiliti, che non di rado fino all’ultimo nega la propria chiusura ; nel caso di questo campionato in particolare, molti incontri importanti hanno collocato eventi decisivi proprio allo scadere del tempo d’azione previsto, richiedendo ulteriori prolungamenti di gioco e dosi supplementari d’incertezza. Lo spettatore, a un certo punto, quasi attendeva il rovesciamento, teoricamente imprevisto eppure incombente quasi fosse prescritto “da copione” ; ci si sentiva collocati in una condizione di sospensione che pareva fingere, o quasi implicare, la presenza di una regia davvero sapiente — ma che, ovviamente, in quanto tale non poteva esistere. E l’espressione “ironia della sorte” pareva allora diventare un principio retorico capace di guidare l’intrico di una sottile organizzazione testuale.

Così, mi rendevo conto che, a tenermi attaccato al teleschermo, a seguire tali epici scontri tra nazioni cui ero malauguratamente estraneo, era in fondo una sorta di barthesiana carenza nell’effettiva concatenazione tra gli eventi, con la possibilità continua di una beffa architettata dal caso. Non si tratta, va notato, di una casualità assoluta, come vale nelle circostanze di una lotteria o del lancio di un dado. La casualità è una componente che si combina con le altre in modi non determinabili, e in fondo oscuri. Capacità dei giocatori, preparazione atletica, disposizione tattica eccetera sembrerebbero collocarsi in primo piano ; di fatto questi fattori decidono sì della qualità del gioco, della preponderanza della squadra in campo, di una superiorità che potrebbe certo essere in quanto tale oggetto di valutazione, e tuttavia lasciano al fattore marginale dell’accidentalità uno spazio determinante nel decidere il risultato, che è ciò che poi conta davvero. Perché sta nel DNA del gioco che sia più facile “sfiorare” la rete che segnarla, inanellare “occasioni” senza ottenerne un effetto, ascrivere a proprio vantaggio dei “quasi-goal” il cui numero, anche infinito, ha somma zero. Si può portare la palla per centinaia di metri con grande sfoggio di abilità, per poi mancare il bersaglio per pochi centimetri. Emblematico è il caso dell’attaccante che, nel tirare in rete, colpisce il palo o la traversa : un colpo che, propriamente, non va né dentro né fuori ma rimbalza sulla linea di confine, vale a dire su una barriera apparentemente neutrale, sottile ma senza dubbio materiale e resistente, chiamata a separare con la sua consistenza il vuoto in cui il pallone avrebbe trionfalmente potuto infilarsi, segnando una rete, dal vuoto esterno del più insignificante “fondo campo” — poco più in qua o poco più in là, la storia sarebbe stata diversa. L’accidente esercita insomma molto peso e mostra un’insospettata e talvolta superiore concretezza, pur occupando piccoli spazi. Può così facilmente risultare sfuggente e convincerci a ignorarlo, a coprirne l’effetto tramite l’introduzione di altre spiegazioni, mentre a ben guardare dovremmo riconoscerne l’assoluta centralità.

2 R. Barthes, “Structure du fait divers”, Essais critiques, Paris, Seuil, 1964.

La dimensione dell’accidentalità non è comunque, considerandola più in generale, da prendere alla leggera. Ne parlavo tra l’altro nel quarto numero di questa rivista, in un articolo contenuto nel dossier su regole e regolarità3. Ne parlavo a proposito, in particolare, di un’opera letteraria del diciottesimo secolo (Jacques le Fataliste di Denis Diderot), e più in generale a proposito del modo in cui, del tutto coerentemente, il secolo dei lumi ha messo in dubbio una grammatica del racconto che tendeva a proiettare sugli eventi un qualche logos trascendente. Si prospettava, a quel tempo, una nuova visione della vita, laica e borghese, che aveva buone ragioni per sostituire l’effetto della contingenza alla forza della predeterminazione. Le forme narrative si allontanavano dunque da quelle proprie al piano dell’ideale per avvicinarsi a quelle, più tortuose e assai meno prevedibili, che caratterizzano “la vita vera”. Questa linea di trasformazione sarebbe poi proseguita in ambito letterario, diventando però forse ancora più evidente nelle arti visive, finché verso la fine del diciannovesimo secolo, in tempi quasi perfettamente paralleli, in pittura come in fotografia vediamo affermarsi la facoltà di rappresentare una realtà che non sia più (come prima quasi sempre era stata) a tal scopo predisposta e ordinata : una realtà sorpresa, potremmo dire, nella sua constatabile, sostanziale accidentalità.

3 G. Ferraro, “Maîtres des règles. De la notion de ‘code’ à la grammaire de l’imaginaire”, Acta Semiotica, II, 4, 2022.

Comprendiamo dunque che la questione dell’accidentalità, e della sua rappresentazione in vari tipi di testi, non è affatto di secondario rilievo. Notiamo anche che si tratta di un percorso di cambiamento che porterà, soprattutto nel corso del ventesimo secolo, alla ridefinizione dell’istanza di destinazione nella forma di una forza diffusa impersonale (non attorializzata), su tutto sovrastante ma non di rado, ai soggetti, tanto poco visibile quanto poco comprensibile. La relazione tra la modernità e la valorizzazione di forme di accidentalità è un tema certo molto complesso, ma non possiamo ignorare del tutto in questa sede il fatto che l’arte abbia deciso di rendere accettabile, visibile, in qualche forma dunque legittimamente rappresentabile, o che addirittura abbia deciso talvolta di porre propriamente al centro dell’attenzione, ciò che prima veniva espulso oltre lo spazio dell’enunciabile, o a malapena tollerato sui margini. S’intravede anche un percorso, sotterraneo e sottile, tramite il quale la nostra cultura ha cercato di immettere senso là dove in teoria sembrerebbe non essercene alcuno, nello sforzo diremmo di ridurre l’incontrollabile a un mero, accettabile, quantum d’imperfezione4.

Nemmeno possiamo qui addentrarci nel percorso che ha condotto la cultura occidentale (scientifica, filosofica e quant’altro) ad allontanarsi dal modello delle connessioni deterministiche, per riconoscere il dominio del probabilistico e dell’accidentale5. Dovremmo però forse chiederci più sistematicamente se la nostra visione delle strutture narrative non possa mostrare dei limiti proprio a causa di un accento, forse eccessivo e un po’ superato, sulla meccanica delle relazioni causali e sul dominio dei progetti d’azione consapevoli.

4 Sul rapporto tra alea, senso e imperfezione si veda E. Landowski, “Il regime dell’incidente”, Rischiare nelle interazioni, Milano, Franco Angeli, 2010, pp. 73-sgg.


5 Su questo punto, cfr. J.-P. Petitimbert, “Régimes de sens et logique des sciences. Interactions socio-sémiotiques et avancées scientifiques”, Actes Sémiotiques, 120, 2017.

4. Meccanica del senso e indeterminatezza narrativa

Una partita di calcio, va detto, non si propone certo come testo aperto. Per quanto possa risultare interpretabile in più modi (soprattutto in ragione delle opposte prospettive dei sostenitori delle squadre protagoniste), alla fine il testo-partita si chiude comunque. Non siamo di fronte né ai labirinti del multiverso né alle narrazioni sfilacciate di certe serie televisive che, stante il loro successo commerciale, vengono forzate a prolungarsi indefinitamente. Qui, con il fischio finale dell’arbitro, si accantonano tutte le eventualità che erano rimaste aleggianti, sicché ci troviamo di fronte a una storia comunque definita, che sia quella di un’ingiusta rovina o di un atteso riscatto, di un colpevole sbandamento o di una prova sfortunata di valore e di carattere : in un modo o nell’altro la sequenza di eventi, che pure nel suo svolgersi avevamo percepito così aperta alle incertezze del caso, reclama alla fine la sua definita interpretazione. In fondo, è possibile in tale prospettiva riconoscere anche le ragioni dell’altro articolista che, come ricordavo prima, nello stesso numero dell’Economist razionalizzava i fatti a partire dalla fine : se la squadra apparentemente minore aveva avuto questo speciale successo, ciò poteva ben essere inteso non come sintomo dell’insensatezza dell’universo sportivo bensì come prova di un’effettiva superiorità organizzativa e manageriale — insomma, se è accaduto, ha una ragione e ha un senso !

L’autore dell’altro articolo sembrava temere che noi, esaltandoci per l’improbabile successo di una squadra minore, dichiarassimo in questo modo una propensione per l’assoluta irregolarità dell’imprevedibile. Non dava però il giusto peso al fatto che le simpatie accordate da molti a quella squadra avessero delle definite ragioni, o meglio un senso. A ben guardare, in effetti, non amiamo l’irregolarità in quanto tale ; se in date condizioni subiamo il fascino dell’accidentalità e dell’imprevedibile è forse perché sappiamo che alla fine (perché una fine è necessario che ci sia), pur a dispetto dell’assenza di un autore e di un qualche premeditato progetto, alla fine comunque una storia ci sarà stata raccontata. Collocherei insomma la partita di calcio, e altri analoghi eventi, in uno spazio intermedio, che segna un ponte (direi pure concettualmente rilevante, se non per certi aspetti anche prezioso) tra l’informe esperienza della vita e l’ordine controllato del Testo in senso classico. Come ad assicurarci che non si tratta, a ben vedere, di due universi totalmente irrelati.

Sulla base delle riflessioni precedenti, possiamo ora concludere che l’attrattiva esercitata da una partita di calcio ci mostra quanto la dimensione del caso vada considerata come una componente importante nella nostra lettura del reale. Forse non dovremmo dimenticare, in proposito, che lo studioso che ha introdotto il termine “semiotica” — mi riferisco ovviamente a Charles Sanders Peirce — era affascinato al tempo stesso dalla onnipervasiva presenza del senso e dalla centralità del caso, che egli considerava insito nelle stesse leggi di natura e capace di permeare ogni aspetto della vita umana. Proporrei allora questa riflessione ulteriore, formulata a partire dal modo in cui Peirce ci ha mostrato quanto la nostra lettura dell’esperienza sia fondata sulla formulazione di ipotesi. Sviluppando il concetto per cui un’ipotesi è sempre, ovviamente, una possibilità che ammette e anzi richiama casi alternativi, potremmo approfondire l’idea per cui la nostra elaborazione del senso del mondo implica proprio la continua rappresentazione di tali alternative o, potremmo anche dire, di percorsi narrativi virtuali. Questa è, secondo la mia convinzione, la base che attiva quegli effetti di senso contrastivi che chiamiamo “passioni”. Pensiamo in particolare a cosa sorregge lo specifico dispositivo patemico del desiderio, che riteniamo fondamentale nei processi di valorizzazione, e dunque di assegnazione di senso. Il meccanismo psicologico e narrativo del volere ci pone continuamente di fronte a un digressione dal mondo dato, proiettandoci in un possibile che percepiamo come un’altra faccia del reale.

Gli economisti — è dalle riflessioni di uno di questi specialisti che sono partito a parlare di calcio — vivono in un mondo fondato (comprensibilmente) su modelli, intesi in termini di formulazioni sostanzialmente induttive, pur se attenuate dalla base statistica. Ma sappiamo anche — ce l’hanno detto gli studiosi di marketing e di microeconomia prima che ci arrivassimo noi semiotici — che cosa ha messo in crisi la loro classica visione fondante, vale a dire la teoria dell’homo oeconomicus : a determinare il tracollo di questa visione è stata la constatazione che i programmi d’azione umani sono fondati, appunto, sull’assegnazione di senso, sulla dinamica dei desideri e sulla forza trainante delle passioni, e con questo sulla capacità d’immaginare alternative al mondo dato. Magari, anche, appassionandosi a raccontare storie immaginarie (favole per bambini e per adulti), o con buona pace della razionalità finanziaria a investire il loro denaro, appassionatamente, in azioni della loro più o meno improbabile squadra del cuore. La teoria semiotica vede, per certi versi s’intende, più in profondo, cogliendo dei meccanismi che possono attribuire un peso determinante a quella che potremmo dire una indeterminazione narrativa.

Perché tutto questo, in conclusione, rafforza l’idea che è importante trovare il modo di attribuire l’opportuno rilievo, nel nostro modello del percorso generativo, alla molteplicità dei percorsi narrativi virtuali. Di fatto, come è possibile disegnare il percorso generativo di un incontro di calcio, considerato come testo narrativo ? Certamente mal vi si presta la modalità comune, che ci forzerebbe a una rappresentazione di eventi, o diciamo di funzioni, o di giunzioni, collocati sulla linea di una sequenza temporale monoplanare. Abbiamo bisogno di un modello un po’ diverso. Ricordiamo però, innanzi tutto, che il percorso generativo (il termine è sempre stato un po’ ingannevole) non rappresenta la successione delle fasi con cui un testo viene creato, bensì la struttura costitutiva che noi assegniamo al testo nell’atto di analizzarne il modo in cui esso organizza la sua espressione di senso. Nel corso della fruizione di un testo — questo vale per la partita di calcio come per la lettura di un romanzo — noi formuliamo via via delle ipotesi sulla struttura della vicenda e sul suo senso complessivo. Nel caso dell’incontro sportivo, però, tutte le ipotesi sono effettivamente in grado di passare in ogni momento dallo stato virtuale a quello attualizzato, ed è la loro parallela compresenza nella rappresentazione mentale di noi spettatori a installare quello scarto differenziale, fra configurazioni di racconto alternative, che attiva i nostri modi di sentire a livello patemico, e dunque i nostri modi di interpretare la concatenazione degli eventi. In altre parole, noi ipotizziamo mentalmente non una ma più possibili strutture testuali, e dunque disegniamo non uno ma più percorsi generativi tra loro alternativi. Questo, ovviamente, fa parte del gioco, e dell’attrattiva di questo tipo di spettacolo.

La questione si pone in termini certo diversi nel caso di un classico testo narrativo. La fine di un romanzo, ben lungi dal dipendere dal caso, ci si presenta come parte integrante del progetto che regge la configurazione del testo. Certo, potremmo avere sperato che Anna Karenina, per fare un esempio, facesse una fine migliore, ma solo un lettore ingenuo può ritenere che Tolstoj dovesse davvero scegliere un finale diverso : ci rendiamo conto che, per il disegno concettuale che regge il romanzo, quello e non altro doveva essere il finale. Qui sta dunque la differenza. Da un lato ci sono le storie che riconosciamo, nel leggerle, come generate a partire da un nucleo semantico portante, dunque secondo i principi che ci sono ben noti, e che collocano la sequenza dei fatti su un piano logicamente successivo rispetto a quello delle strutture sottostanti. Dall’altro lato vi sono invece le storie la cui organizzazione strutturale percepiamo come prodotta dall’accadere concreto degli eventi, sicché le loro strutture generative portanti si disegnano a posteriori rispetto alla sequenza dei fatti.

Ma per quanto i due casi siano sotto questa luce profondamente differenti, vale per entrambi il principio per cui il senso dipende, in misura rilevante, dal confronto fra la sequenza narrativa realizzata e le sequenze alternative virtuali (quanto avevamo immaginato, previsto, sperato o temuto). Il principio della costituzione differenziale del senso resta in tutti i casi ugualmente valido, e con questo l’opportunità di trovare modi per darne una rappresentazione definita, nelle nostre modalità tecniche di descrizione strutturale dei percorsi di generazione del testo. Potremmo tra l’altro riformulare in tal senso alcune intuizioni interessanti di autori come Claude Bremond, con la sua attenzione per le alternative virtuali nel racconto, o Umberto Eco, con la sua idea delle “passeggiate inferenziali” e il suo accento sulle operazioni dinamiche che un testo predispone per il suo lettore.

 

Sono ormai molti anni, del resto, che ci troviamo ad analizzare testi letterari (si pensi a Italo Calvino), e poi soprattutto cinematografici, fondati esplicitamente sull’effetto del caso nella produzione di sequenze di eventi alternative ; dobbiamo quindi essere in grado, ad esempio, di rappresentare una vicenda duplice, che inizia a diramarsi dall’istante in cui la protagonista, per un ritardo di una frazione di secondo, sale o meno su un certo treno della metropolitana (come vale per il celebre film Sliding Doors, un classico del genere). Più recentemente, si sono moltiplicati i racconti cinematografici fondati sul meccanismo del loop, dove ci viene mostrato in successione cosa accade se il protagonista agisce nel modo A oppure, ricominciando da capo, se agisce nel modo B, e così via. E adesso, dobbiamo essere pronti per dare una rappresentazione strutturale a storie in cui ogni protagonista può veder succedere qualunque cosa, può trovarsi improvvisamente in qualsiasi altro luogo, assumere qualunque altra forma identitaria, e peggio ancora questo accade, per la nostra disperazione di analisti di schemi narrativi, all at once6 ! Può magari venirci da sorriderne, ma a torto, perché questo, almeno questo, non avviene per caso, ma si presenta come parte di una trasformazione di modelli culturali profonda, e di vasto respiro. Qualcosa che sta mutando la nostra comune percezione del reale, e insieme le forme di rappresentazione dell’esperienza. Sarà importante occuparcene. Ma questo è tutto un altro terreno di gioco.

6 Mi riferisco ovviamente al film di D. Kwan e D. Scheinert, Everything Everywhere All At Once, del 2022.


Riferimenti bibliografici

Barthes, Roland, “Structure du fait divers”, Essais critiques, Paris,Seuil, 1964.

Cervelli, Pierluigi, Luigi Romei e Franciscu Sedda (a cura di), Mitologie dello sport. 40 saggi brevi, Roma, Nuova Cultura, 2010.

Demuru, Paolo, Essere in gioco, Bologna, Bononia University Press, 2014.

Ferraro, Guido, “Maîtres des règles. De la notion de ‘code’ à la grammaire de l’imaginaire”, Acta Semiotica, II, 4, 2022.

Landowski, Eric, Rischiare nelle interazioni, Milano, Franco Angeli, 2010.

Petitimbert, Jean-Paul, “Régimes de sens et logique des sciences. Interactions socio-sémiotiques et avancées scientifiques”, Actes Sémiotiques, 120, 2017.

 


1 Cfr., tra l’altro, P. Cervelli, L. Romei e F. Sedda (a cura di), Mitologie dello sport. 40 saggi brevi, Roma, Nuova Cultura, 2010 ; P. Demuru, Essere in gioco, Bologna, Bononia University Press, 2014.

2 R. Barthes, “Structure du fait divers”, Essais critiques, Paris, Seuil, 1964.

3 G. Ferraro, “Maîtres des règles. De la notion de ‘code’ à la grammaire de l’imaginaire”, Acta Semiotica, II, 4, 2022.

4 Sul rapporto tra alea, senso e imperfezione si veda E. Landowski, “Il regime dell’incidente”, Rischiare nelle interazioni, Milano, Franco Angeli, 2010, pp. 73-sgg.

5 Su questo punto, cfr. J.-P. Petitimbert, “Régimes de sens et logique des sciences. Interactions socio-sémiotiques et avancées scientifiques”, Actes Sémiotiques, 120, 2017.

6 Mi riferisco ovviamente al film di D. Kwan e D. Scheinert, Everything Everywhere All At Once, del 2022.

 

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Résumé : L’analyse d’un match de football peut poser à la sémiotique de nombreuses questions, mais plus central que tout semble être ce qui concerne le rôle de l’accidentalité. Pouvons-nous souhaiter la victoire d’une équipe en théorie défavorisée, comme le déplore un journaliste économique ? Pouvons-nous prendre plaisir à un spectacle qui peut être décidé par des événements mineurs, presque négligeables ? Plus généralement, dans la définition des structures narratives, comment évaluer le rôle du hasard et le jeu des possibilités multiples ? Devons-nous repenser, à certains égards, le rapport entre le réel et le possible ? En fin de compte, la question semble beaucoup moins futile et circonscrite que ce qu’on pourrait penser.


Resumo : A análise de uma partida de futebol pode levantar muitas questões para um semioticista, mas o que parece mais relevante diz respeito ao papel do acidental, do fortuito. É possível desejar a vitória de um time teoricamente mais fraco, como lamenta um jornalista do The Economist ? Como desfrutar de um espetáculo cujo resultado às vezes depende de eventos menores, quase irrelevantes ? Mais geralmente, como avaliar o papel do acaso e o jogo de uma multiplicidade de possibilidades na definição das estruturas narrativas ? Será que, de certa forma, temos que repensar a relação entre o real e o possível ? No final das contas, a questão parece muito menos fútil do que se poderia pensar.


Abstract : The analysis of a football match may pose many questions to semiotics, but most central of all seems to be what revolves around the role of fortuity. Can we hope for the victory of a supposedly disadvantaged team, as deplored by an economic journalist ? Can we take pleasure in a show whose issue can be decided by minor, almost negligible events ? More generally, how to evaluate the role of randomness and the play of multiple possibilities in the definition of narrative structures ? Do we need to rethink, in some respects, the relationship between the real and the possible ? The issue, in the end, seems much less futile and circumscribed than we might think.


Riassunto : L’analisi di una partita di calcio può porre alla semiotica molti interrogativi, ma quello più centrale di tutti sembra essere quanto concerne il ruolo della accidentalità. È lecito augurarci la vittoria di una squadra in teoria sfavorita, cosa deplorata da un giornalista economico ? Possiamo prendere piacere da uno spettacolo che può essere deciso da eventi minori, quasi negligibili ? Più in generale, come valutare il ruolo del caso e il gioco delle possibilità multiple, nella definizione delle strutture narrative ? Dobbiamo forse per certi versi ripensare il rapporto tra il reale e il possibile ? Alla fine, la questione sembra essere assai meno futile e circoscritta di quanto si potrebbe pensare.


Mots clefs : narration, prédictible / aléatoire, réel / possible, génératif (parcours).


Auteurs cités : Roland Barthes, Claude Bremond, Umberto Eco, Eric Landowski, Charles S. Peirce.


Plan :

1. Partite di calcio e curiosità semiotiche

2. Una civiltà del prevedibile ?

3. Il ruolo della componente accidentale

4. Meccanica del senso e indeterminatezza narrativa

 

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Recebido em 15/04/2023. / Aceito em 04/05/2023.