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Dossier : Règles, régularités et création
L’improvvisazione come forma Tarcisio Lancioni e Davide Sparti
Publié en ligne le 26 décembre 2022
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L’orientamento dell’analisi semiotica verso i prodotti “finiti” della cultura, quali che essi siano (verso i “testi”), sostiene Eric Landowski in un recente articolo, conduce la ricerca stessa a cogliere esclusivamente la dimensione delle regole e delle regolarità, delle “grammatiche” immanenti ai testi stessi, impedendole di comprendere le dinamiche dei processi creativi, senza i quali non potrebbero esistere testi “originali”, che non siano cioè, per l’appunto, l’esito di un’applicazione pedissequa di un sistema di regole1. |
1 E. Landowski, “Plaidoyer pour l’esprit de création”, Semiotika (Vilnius) 16, 2021. |
In questa prospettiva, Landowski propone di assumere come oggetti di analisi, anziché i prodotti finiti, i processi creativi : Plutôt que sur ces divers types de “produits finis”, il faut nous concentrer sur ce que font leurs auteurs, et plus précisément sur ce qu’il a fallu qu’ils fassent pour que les fruits de leur art ou les éléments issus de leur activité existent tels qu’ils sont. Se fixer sur les produits plutôt que sur leurs processus de production amène en effet, presque inévitablement, à survaloriser sinon à hypostasier la régularité.2 |
2 Art. cit., p. 262. |
Tali processi di carattere creativo, argomenta Landowski, possono emergere grazie a un particolare regime di interazione attanziale (fra Soggetto e Oggetto o tra Soggetti), quello dell’aggiustamento, contrariamente ai processi “routinari”, non creativi, fondati esclusivamente sulla regolarità, che sarebbero invece riconducibili al regime di programmazione. Come è noto, Eric Landowski propone di concettualizzare le forme di interazione attraverso un modello che le distribuisce lungo quattro regimi complementari : quello della programmazione (basato sulle regolarità e il controllo), quello della coincidenza aleatoria (basato sul caso), quello dell’aggiustamento (basato sul coinvolgimento sensibile e sull’improvvisazione) e quello della manipolazione (basato sulla persuasione del volere altrui)3. Non si tratta di differenze empiriche (nella concreta interazione sociale percorriamo il quadrato in molti modi) ma analitiche. Benché Landowski sottolinei come tali distinzioni possano essere sfumate, sussiste la tentazione di identificare determinate pratiche, o tipi di processi, esclusivamente con regimi di interazione particolare, come accade se associamo la creatività al regime di aggiustamento e la collochiamo in opposizione al regime di programmazione. Tentazione che resta diffusa, anche se Landowski, nell’articolo sopra citato, sottolinea a più riprese che la creatività non deve essere identificata con una cancellazione delle regole, con una prassi “sregolata”, ma piuttosto con il loro “oltrepassamento”, spesso utile anche a ridefinire le regole stesse del gioco. |
3 Cfr. Les interaction risquées, Limoges, Pulim, 2005 ; trad. it. Rischiare nelle interazioni, Milano, FrancoAngeli, 2010. |
Seguendo il suggerimento landowskiano di volgere l’attenzione ai processi, e con l’intento di ampliare la riflessione, proponiamo di concentrarsi su un caso che ci sembra esemplare, quello dell’improvvisazione. Benché, da un lato, l’improvvisazione sembri collocarsi decisamente nell’ambito di un regime di aggiustamento, proprio in quanto si oppone, per scelta o per necessità, alle pratiche “regolate”, vedremo che essa si ridefinisce proprio a confronto con altri regimi di interazione, quali quello dell’accidente e quello della programmazione, tanto da suggerire forme di aggiustamento programmato, sorta di sotto articolazione interna del regime, in cui l’aggiustamento sembra presuppore, o almeno coniugarsi, con il regime di programmazione. |
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Adottando uno “stile semiotico” consolidato, iniziamo da una consultazione dei dizionari, alle voci improvvisare (improviser ; to improvise) e improvvisazione (improvisation ; improvisation)4. Rileviamo innanzitutto, indipendentemente dalla lingua, che l’improvvisazione concerne, semioticamente, la dimensione della competenza (saper-fare ; poter-fare) di un Soggetto in vista dell’esecuzione di un compito. È però interessante rilevare che tale competenza si trova ad essere caratterizzata in forme diametralmente opposte : da un lato, si tratta infatti di un’improvvisazione legata (o causata) da una carenza di competenze ; dall’altro, si tratta invece una improvvisazione che è resa possibile da una eccellenza di competenze. Nel primo caso è l’assenza (o carenza) di mezzi strumentali (poter-fare) e/o cognitivi (saper-fare, la non conoscenza delle regole, delle grammatiche) che impone al Soggetto di rispondere a un compito / programma imprevisto riadattando all’occasione i mezzi, inadeguati, di cui dispone. Possiamo riconoscere in questa situazione la figura del bricoleur, celebrata da Lévi-Strauss e da Jean-Marie Floch, in opposizione a quella dell’ingegnere, che agisce, al contrario, con un bagaglio strumentale perfettamente adeguato5. Nel secondo caso, che è in genere esemplificato con l’attività compositiva di tipo artistico, il Soggetto appare in grado di improvvisare solo grazie ad una enorme competenza “tecnica” (regole e grammatiche) che gli consente di adattarsi completamente alla situazione e in virtù della quale riesce a produrre una performance o un testo originale. Se nel caso precedente si deve improvvisare perché non si posseggono le regole, in questo si può improvvisare perché se ne ha una completa padronanza, tale, come scrive Landowski, da poterle oltrepassare, o meglio ripensare rispetto alla situazione specifica6. |
4 Abbiamo consultato, per l’italiano, lo Zingarelli 2018 e il Devoto-Oli ; per il francese, Le Larousse en ligne e Le Robert en ligne ; per l’inglese il Oxford OALD 2020 e il Merriam-Webster online. 5 Cl. Lévi-Strauss, Claude, La pensée sauvage, Paris, Plon, 1962 ; trad. it., Il pensiero selvaggio, Milano, Il Saggiatore, 1964. J.-M. Floch, Identités visuelles, Paris, P.U.F., 1995 ; trad. it., Identità visive, Milano, FrancoAngeli, 1997. 6 Cfr. “Avere presa, dare presa”, Lexia, 3-4, 2009, pp. 150-153 (“Apprendimento, padronanza, virtuosità”). |
Nel primo caso i ruoli tematici implicati dall’improvvisazione sono quelli del dilettante, del “facilone”, dello sprovveduto, o dello “straniero”, nel senso lotmaniano del termine7 : chi si trova improvvisamente in un ambiente semiotico che gli è estraneo ; nel secondo caso i ruoli implicati sono invece quelli del virtuoso e dell’estroso. |
7 Cfr. J.M. Lotman, La cultura e l’esplosione, Milano, Feltrinelli, 1992. |
Oltre a questa opposizione fra carenza ed eccellenza di competenza, accompagnate abitualmente da una diversa sanzione morale, negativa per il dilettante e positiva per il virtuoso8, i dizionari consultati suggeriscono anche un riferimento ai regimi di interazioni implicati, in quanto, da un lato, l’improvvisazione appare resa necessaria dal profilarsi di una situazione imprevista, e imprevedibile. Dunque, la creatività che si concretizza nell’adattamento estemporaneo dei propri (inadeguati) mezzi (sforzo di aggiustamento) appare come la risposta ad un regime di accidente, e si configura come pratica di ricostituzione di una continuità rispetto a una discontinuità improvvisa. La creatività “estrosa” tende a manifestarsi in situazioni già previste, dunque precedentemente programmate, a cui il virtuoso giunge preparato, con un bagaglio di competenze pronte ad essere ripensate e adattate alla situazione specifica. Situazione che dunque presenterà sì tratti di unicità ma di unicità in qualche misura prevedibile. Programmata. La discontinuità non è completamente inattesa e la pratica creativa si caratterizza piuttosto come un indugio continuo su questa discontinuità, che viene anzi sostenuta e rilanciata9. A partire da queste osservazioni, ci sembra opportuno distinguere due forme di aggiustamento, quella passiva (le circostanze mi trasformano in improvvisatore coatto), risposta occasionale a un regime di accidente, e quella attiva, la ricerca intenzionale dell’originalità10. Prendiamo le mosse dalla prima. Ciascuno di noi è costretto ad improvvisare dalla contingenza delle situazioni (la macchina va in panne ; mi imbatto in una persona che non mi sarei mai aspettato di incontrare...), e dal fatto che ruoli e regole non sono in grado di anticipare esattamente il corso degli eventi, o comunque, che siamo noi a non essere in grado di anticipare come risponderemo a tali congiunture. Pensiamo all’organizzazione di una rappresentazione teatrale all’aperto, alla gestione di uno sciopero non pianificato11. In tali casi, l’agire assume inevitabilmente la forma dell’improvvisazione, del venire a capo delle circostanze, saggiando, inciampando. In estrema sintesi, l’emergenza induce improvvisazione. Persino la vita quotidiana, se osservata al microscopio, non è solo ripetizione, routine e abitudine ; vi si ritrovano anche sorpresa e una certa dose di invenzione e variazione (pensiamo agli incontri imprevisti il cui decorso non è pianificato e si sviluppa gesto dopo gesto, in assenza di un copione prestabilito o di un regista che diriga). Ma la vita quotidiana ha in buona parte a che fare con la costruzione attorno a sé di un ambiente prevedibile, in modo da esonerare chi si muove in esso dalla faticosa necessità di essere originali nell’apprendere nuove soluzioni. Il processo di quotidianizzazione della realtà corrisponde ad una forma di “deproblematizzazione dell’esperienza” e, simultaneamente, di “appaesamento” nel mondo in cui ci si insedia. Sotto questo profilo, il quotidiano può essere definito come la capacità di organizzare il mondo in modo tale da non essere costretti a sperimentarlo. |
8 Non mancano ovviamente, nella nostra cultura, valorizzazioni negative del virtuosismo, in particolare quando questa sembra divenire fine a sé stesso, dunque mera esibizione della competenza di un Soggetto incapace di orientarsi verso la produzione di fenomeni / testi “originali”. Così come non mancano le difese del dilettantismo in quanto capacità di adattare il proprio bagaglio di strumenti a qualunque situazione, anche in ambiti in cui non si è competenti (cfr. G. Marrone, Dilettante per professione, Palermo, Torri del vento, 2015). 9 A partire da una riflessione su A.J. Greimas, Dell’imperfezione (1987), Franciscu Sedda propone il concetto di turbolenza per designare il termine neutro fra continuità e discontinuità. Si vedano in proposito : “Logiche della turbolenza”, Versus, 2, 2021, e “Forme e ritmi dell’imprevedibile”, Acta Semiotica, II, 3, 2022. Sulla turbolenza si veda anche Paolo Fabbri : “Turbolenze. Determinazione e impredicibilità” in T. Migliore (a cura di), Incidenti ed esplosioni. A.J. Greimas, J.M. Lotman per una semiotica della cultura, Roma, Aracne, 2010. 10 Cfr. D. Sparti, On the edge. A frame of analysis for improvisation, in G. Lewis & B Piekut (eds.), The Oxford Handbook of Critical Improvisation Studies, Oxford, Oxford University Press, 2016. 11 Cfr. G. Lanzara, “Le organizzazioni effimere in ambienti estremi : genesi e strategie di intervento”, Capacità negativa. Competenza progettuale e modelli di intervento nelle organizzazioni, Bologna, Il Mulino, 1993. |
Venendo adesso alla seconda forma di aggiustamento, rivolgiamo l’attenzione alle pratiche estetiche centrate sull’aggiustamento come il jazz o il tango argentino, in cui l’improvvisazione determina la forma stessa della pratica. Qui improvvisazione descrive la capacità di far leva sull’imprevisto. I professionisti dell’improvvisazione si specializzano nel gestire la flessibilità. Sono esperti nel fare emergere delle opportunità dalle contingenze interne e esterne. Basandosi sull’abilità di sfruttare le perturbazioni, l’aggiustamento, nel jazz, non è solo emergenziale. Obbedisce all’esigenza di generare un ordine fluttuante funzionale all’evoluzione della pratica. Funzionale poiché tali contingenze rappresentano spunti sfruttabili dai musicisti e dunque reintegrabili nella musica in corso12. |
12 Cfr. E. Landgraf, Improvisation as art, New York, Bloomsbury, 2011, p. 39. |
Da un ponto di vista più generale, benché vi sia tensione fra la volontà di improvvisare e l’essere indotti a improvvisare (per far fronte alle pressioni ecologiche), queste due forme sono correlate, poiché l’emergente (ciò che si configura in maniera inattesa) viene a sua volta usato attivamente da chi improvvisa. Alla luce di queste considerazioni proponiamo di distinguere l’aggiustamento reattivo (che coincide con la capacità di rispondere allo svolgimento imprevisto degli eventi — quasi un meccanismo di adattamento a circostanze mobili) dall’aggiustamento programmato, che è una forma di sperimentazione estetica intenzionalmente praticata. Nel jazz si improvvisa, per così dire, programmaticamente : l’improvvisazione è deliberata, anche se non frutto di deliberazione. Di fatto, anche se il jazzista (l’esperto) improvvisa programmaticamente, quello che improvvisa non è programmato. E pur essendo intenzionale, la sua attività non segue un piano specifico circa quello che accadrà durante l’improvvisazione. In questo caso, l’improvvisazione stessa non è un mezzo volto ad ottenere un fine estrinseco all’improvvisazione, come nel caso dell’aggiustamento reattivo, quanto un fine in sé. Consideriamo l’esempio della partita di calcio. Ci sono schemi e ruoli, solo che il comportamento effettivo dei giocatori dipende da fattori contingenti come l’agire degli avversari e dei compagni di squadra, nonché dalla posizione spesso non anticipabile del pallone. Però nel calcio, a differenza del jazz, l’improvvisazione è un effetto collaterale e persino perverso. Se un giocatore potesse avvalersi di un programma per l’azione che garantisse il gol, lo seguirebbe con monotona efficacia (e non sarebbe certo disposto a giocare in maniera ogni volta diversificata in nome della varietà estetica ma a rischio di non segnare). Senza questa distinzione interna al regime dell’aggiustamento, si rischia di utilizzare una categoria troppo “larga” e generica che copre delle differenze importanti. Prendiamo ancora un esempio, questa volta derivato dal basket professionistico americano (NBA), dove ricorre un’espressione che ci sembra rivelatrice : “slowing down the game”, rallentare la partita, con cui viene denotata una competenza specifica che i giocatori alle prime armi devono necessariamente acquisire. Non si tratta di rallentare il gioco quanto piuttosto di diventare capaci di inserirsi all’interno del gioco con il giusto “ritmo” : all’inizio della carriera, il ritmo di gioco è troppo elevato e il giocatore, per quanto tecnicamente abile, fa fatica ad inserirvisi e a fare le scelte “giuste”, e non c’è nessuna regola capace di predefinire la “giustezza” della propria mossa, che ha sempre un duplice scopo in quanto deve coordinarsi con le mosse dei compagni di squadra e contemporaneamente essere “imprevedibile” per gli avversari. Vediamo allora delinearsi il sincretismo di due regimi di aggiustamento, che potremmo definire congiuntivo e disgiuntivo, in quanto il primo, come nel ballo, è orientato alla costruzione condivisa con i compagni di un flusso di movimento unico, mentre il secondo è invece mirato a disorientare l’avversario, il tutto (quasi) solo attraverso i movimenti del proprio corpo e dei segni che questo è capace di inviare, simultaneamente, nelle due direzioni. La dimensione della programmazione, cioè il rispetto delle regole del gioco, resta ovviamente essenziale, come frequente è il ricorso ad altri repertori di regolarità “testualizzate” (le soluzioni di gioco inventate in precedenza da altri giocatori), ma ciò non può che produrre esiti (azioni) in gran parte prevedibili, che è proprio ciò che il giocatore deve superare : slowing down the game significa dunque proprio imparare a muoversi in un processo di aggiustamento congiuntivo / disgiuntivo continuo, attraverso cui il giocatore diviene capace di regolare il proprio ritmo e la giustezza dei propri gesti e delle proprie scelte. |
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3. Un aggiustamento che presuppone la programmazione Fra la dinamica dell’aggiustamento reciproco e la programmazione vi è una relazione concettuale : il programma rappresenta lo standard contro il quale (o sullo sfondo del quale) l’aggiustamento si misura (per contrasto), si differenzia. Detto altrimenti, l’improvvisazione presuppone il concetto di azione premeditata ed eseguita sulla base di programmi prestabiliti. Senza programmi, non potremmo avere un termine di riferimento per comprendere l’improvvisazione produttiva, perché questa si stacca da un determinato programma. In breve, pur distinti analiticamente, i due regimi della programmazione e dell’aggiustamento si presuppongono, o meglio, l’aggiustamento presuppone la programmazione. In “Evento firma contesto” Derrida ha persuasivamente mostrato come le nozioni di singolarità e originalità siano legate ad un ordine non singolare e non originale (ma noto e familiare) che permette di riconoscerle (ossia di individuarle) come tali13. L’alterità presuppone l’iterazione (la ripetizione) come sfondo — come orizzonte concettuale — che la delimita e permette di identificarla. In questo senso, un’improvvisazione è già da sempre mediata da una conoscenza non improvvisata che rappresenta la condizione della sua riconoscibilità. La distinzione chiave non è quella fra forma mediate (la programmazione regolata) e immediate (l’aggiustamento spontaneo) ma fra differenti modi della mediazione14. Se improvvisare significasse inventare una cosa del tutto singolare per la prima e unica volta, se il nuovo rinviasse a ciò che è appena nato, a ciò che è assolutamente primo, non sarebbe riconoscibile né comunicabile e condivisibile. Il nuovo rimanda necessariamente al già costituito come sfondo che permette di riconoscere lo scarto rispetto all’ordine esistente. Questa presupposizione non è solo concettuale ma investe la possibilità stessa di entrare con competenza in una situazione interattiva dinamica ed innovativa. Ogni improvvisazione deriva e si forma in rapporto a strutture ed a conoscenze antecedenti. Non in opposizione a esse. Al contrario, allo stesso modo che per diventare creativa, la tecnica o più in generale la conoscenza dei “procedimenti” rilevanti richiama una “visione”, la messa in atto di quest’ultima necessita il ricorso ai mezzi operativi corrispondenti15. Questo significa, peraltro, che è impossibile determinare con esattezza dove cominci l’improvvisazione e dove cessi la programmazione. Nonostante la mitologia di una creazione di getto, come si dice, l’improvvisazione inizia sempre in forma di variazione di un modello condiviso. |
13 “Firma Evento Contesto”, Limited Inc, Evanston, Northwestern University Press, p. 19 (trad. it, Limited Inc, Milano, Cortina, 1997). 14 Cfr. E. Landgraf, op. cit., pp. 4 e 23-24. 15 Sulla relazione dialettica tra visione e procedimento, cfr. E. Landowski, “Vettura e pittura : dall’utilizzo alla pratica”, in S. Jacoviello, T. Lancioni, A. Mengoni e F. Polacci, Testure. Scritti seriosi e schizzi scherzosi per Omar Calabrese, Siena, Protagon, 2009, p. 299. |
Fatte queste precisazioni, fra programmazione e aggiustamento restano nondimeno delle differenze cruciali. Per quanto predefinito, ciascun programma ha i suoi inevitabili punti di indeterminazione, un’area residuale non coperta dal piano che chi agisce realizza sul momento. Così il programma effettivamente eseguito è sempre il doppio frutto delle istruzioni e di quanto deciso in situ. Ma questa ineliminabile dimensione di aggiustamento è un sottoprodotto del surplus incontrollabile di fattori che nel corso dell’esecuzione concausano l’esito dell’interazione, laddove nel caso dell’improvvisazione in contesti specializzati come quelli del jazz l’imprevedibilità è provocata, provocata operando su parametri che massimizzano la variazione, incrementando la probabilità che accada l’improbabile16. |
16 E. Landgraf, op. cit., p. 38. Cfr. anche F. Sedda, “Forme e ritmi dell’imprevedibile”, art. cit. |
Il jazzista che improvvisa lo fa programmaticamente, come sottolineato. Questo non significa tuttavia che i contenuti di quella improvvisazione siano programmati (la struttura sonora di un’improvvisazione musicale è scoperta nel corso della performance). Se l’agire intenzionale può essere definito come quell’agire in cui il fare e la consapevolezza del fare si rimandano reciprocamente, nel caso dell’improvvisazione, come osserva Alessandro Bertinetto, l’intenzione non si forma prima dell’azione, sotto forma di piano deliberato che mi permette di rappresentare uno stato a venire, ma emerge e si articola durante l’azione (scopro dove andare e come andare avanti mentre procedo ; scopro cioè il futuro via via che si delineano le conseguenze di quello facciamo)17. Certo, l’improvvisazione richiede una notevole preparazione, ma nessun aspetto di questa improvvisazione in corso può essere (stata) preparata. Esattamente come non si (può) impara(re) a morire, perché è qualcosa che nella vita si fa una volta sola, e questa prima volta è per definizione anche l’ultima. È dunque impossibile tornarci su per riuscire meglio. Come osserva lapidariamente Jankelevitch : “L’uomo affronta obbligatoriamente la morte in uno stato di improvvisazione (...)”18. |
17 Cfr. A. Bertinetto, “‘Mind the Gap’. L’improvvisazione come azione intenzionale”, Itinera, 10, 2015, pp. 179 e 187. 18 V. Jankélévitch, La morte (1966), Torino, Einaudi, 2009, p. 18. |
Avere le competenze necessarie per saper improvvisare non equivale a sapere cosa sia opportuno fare nel corso di una specifica, concreta situazione. Di qui il seguente paradosso : bisogna essere molto preparati per agire senza preparazione. Chi improvvisa affronta qualcosa di inatteso. Ci si prepara per l’imprevisto, ma dato che l’imprevisto è imprevedibile, siamo al tempo stesso preparati e impreparati. Se sono troppo preparato nei confronti dell’imprevisto, l’imprevisto non è più tale. In breve, se un’improvvisazione è modellabile con la preparazione, l’esperienza e la competenza, quando improvviso non so esattamente cosa accadrà. Se lo sapessi, l’improvvisazione equivarrebbe all’esecuzione di un copione (mentale) prestabilito. |
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5. L’improvvisazione come pratica Riflettiamo sull’etimologia della parola improvvisazione : im-pro-video (non pre-visto). La combinazione delle tre parole allude ad un futuro rispetto al quale vige incertezza, un non sapere l’esito dell’azione. Se è precisamente questo non sapere che mi iscrive nel campo dell’improvvisazione, esso corrisponde però a sua volta a un sapere : se sono uno specialista dell’improvvisazione, sono consapevole — e accetto — di non sapere esattamente come si configurerà l’azione in cui sono impegnato. Di più : si tratta di un non-sapere solo al tempo t0, poiché al tempo t1, quando la situazione nella quale mi trovo si articola, grazie a un saper-fare acquisito nel corso degli anni, saprò cosa fare. Pur non potendo prevedere il decorso dell’azione, l’improvvisatore esperto possiede le risorse per affrontarla con una sorta di previsione complessiva (aspecifica) che con Bourdieu si potrebbe chiamare presagire (pré-voyance in quanto distinta dalla prévision)19. Non dispongo di una rappresentazione accurata di quello che sto per affrontare. Ciò nonostante, ho un presentimento che mi permette di affrontarlo con un certo agio. Una sorta di precognizione o aspettativa di massima circa quello che potrà accadere, nonché un’attesa di riuscita (talvolta disattesa). Per questo, se sono uno specialista dell’aggiustamento programmato, pur non potendo essere preparato per l’improvvisazione in corso, sono nondimeno pronto a installarmi in questa zona di transizione con l’imprevedibile. “Non sono preparato ma sono pronto” dice il condannato a morte di Victor Hugo in Le Dernier Jour d’un condamné. Non si tratta di programmare l’inatteso, che è impossibile, ma di predisporsi ad esso. |
19 P. Bourdieu, Esquisse d’une théorie de la pratique (1972), Paris, Seuil, 2000, p. 377. |
Di qui la parzialità della visione eroica secondo cui improvvisare significa collocarsi ripetutamente nel terribile momento del non sapere bene cosa succederà, il momento in cui esco allo scoperto e la mia competenza e l’esperienza accumulata, non sono sufficienti ; il momento della sovversione di ogni piano e programma. Se questo fosse il caso, se l’improvvisazione corrispondesse a qualcosa di misterioso e fatale, dovremmo inchinarci con stupore di fronte all’occorrenza di ciò che non capiamo20. Non vi è alcuna ragione di considerare la capacità di improvvisare più elusiva delle doti necessarie per condurre una conversazione priva di copione, in cui non sappiamo esattamente che cosa verrà fuori, né che tipo di asserzioni saremo indotti ad enunciare. Pensiamo alla risposta generata per far fronte ad una domanda inattesa. La risposta richiede sì reattività, ma soprattutto conoscenza dell’argomento, ed un ricco vocabolario di base. Benché quello che diremo non possa essere integralmente anticipato, e benché sia richiesta prontezza mentale, il linguaggio che useremo per comunicare ci è assai familiare (siamo già utenti competenti del linguaggio quando ci accingiamo a raccontare una storia inedita). Ed il motivo per cui assumiamo atteggiamenti così diversi nei confronti delle due pratiche, è che mentre ciascuno di noi è un competente conversatore e sa anche parlare a braccio (ma — si badi — abbiamo impiegato anni per impararlo ; essendo il conversare una necessità culturale, viene profuso un impegno enorme per mettere i bambini in condizioni di farlo con fluidità e freschezza), l’improvvisazione non è un obbligo normativo21. La maggior parte di noi è semplicemente uno spettatore di musicisti che hanno sviluppato tale abilità (invisibile ai non iniziati), ed è per questo che ci stupiamo e che l’improvvisazione ci appare prodigiosa. Invece di celebrare l’eccezionalità del momento creativo, ci sembra importante riconoscere come, in una famiglia di casi, chi entra nel regime dell’aggiustamento obbedisce al requisito specifico di un campo in cui essere non convenzionali è la convenzione ; in cui cambiare fa parte della tradizione. |
20 La tentazione di pensarlo emerge soprattutto nei confronti di quei gruppi jazz che praticano forme di improvvisazione radicale, le quali — attenzione — si basano sulla seguente regolamentazione : non si parla della musica fuori dalla performance, non si fanno prove, non si concorda nulla a priori, non si danno titoli ai dischi o ai brani. 21 Sui rapporti fra conversazione e improvvisazione jazzistica si veda anche P. Fabbri, Biglietti d’invito per una semiotica marcata, Milano, Mimesis, 2021. Sui processi di gestione dei concatenamenti discorsivi come pratiche di aggiustamento si veda T. Lancioni, “Us and its Body” in I. Pezzini (a cura di), Paolo Fabbri. Unfolding Semiotics. Pour la sémiotique à venir, Punctum. International Journal of Semiotics – Semiotics Monographs, 1, 2021. |
In altre parole, l’improvvisazione è una pratica, una forma complessa di attività umana incarnata e cooperativa. Può essere utile ricordare qui la distinzione tracciata da Gilbert Ryle fra knowing how e knowing that22, ossia fra la conoscenza operativa, collegata a ciò che si fa senza riflettere sul come — e talvolta sul perché — lo si fa (chiamiamola la conoscenza di sfondo), e la conoscenza di chi rappresenta mentalmente un compito prima di eseguirlo. Il jazzista non conosce la pratica dell’improvvisazione perché la “sa” rappresentare, ma perché mobilita un sapere assimilato che opera come conoscenza-in-azione o habitus. Proprio perché abbiamo a che fare con un sapere in azione in cui il corpo diventa vettore di conoscenza, sappiamo più di quello che riusciamo ad articolare verbalmente. Di qui la difficile traducibilità discorsiva dell’esperienza improvvisata. Come spiega Gregory Bateson con riferimento all’artista, “If his attempt is to communicate about the unconscious components of his performance, then it follows that he is on a sort of moving stairway (or escalator) about whose position he is trying to communicate but whose movement is itself a function of his efforts to communicate”23. |
22 Cfr. G. Ryle, The concept of mind, Chicago, University of Chicago Press, 1949. 23 G. Bateson, Steps to an Ecology of Mind. Collected Essays in Anthropology, Psychiatry, Evolution, and Epistemology, Chicago, The Universiy of Chicago Press, 2000, p. 138. |
La nozione di improvvisazione tende a condensarsi in alcune figure e associazioni fuorvianti. Uno dei pregiudizi diffusi nei confronti dell’improvvisazione è quello che la vede come gesto raro e solitario. Stregati dall’immagine religiosa della creazione dal nulla, la si pensa come una sorta di miracolo. Ma si può improvvisare solo facendo riferimento a una matrice di vincoli, abitudini e competenze che presuppongono un lavoro pedagogico specializzato. Nella seconda metà degli anni Sessanta, quando Timothy Leary propose di cestinare la sceneggiatura di un film sperimentale e surrealista (Indiangivers, di David Dozer), il compositore e jazzista Charles Mingus gli disse : “You can’t improvise on nothing, man, you’ve gotta improvise on something”24. Si può improvvisare su qualsiasi cosa, ma non si può improvvisare sul niente. |
24 G. Santoro, Myself When I Am Real : The Life and Music of Charles Mingus, Oxford, Oxford University Press, 2001, p. 271. |
Non per caso la prima tappa nella formazione del jazzista è centrata sull’abilità pratico-imitativa di sfruttamento del già-noto. La cosiddetta spontaneità del jazzista è il frutto di un lungo tirocinio, che ha iscritto un sapere (e un saper fare) nel suo corpo. Se prendiamo l’esempio del tango argentino, il mutuo aggiustamento fra ballerini è reso possibile da un vocabolario assunto come condiviso. Gesti e sequenze gradatamente codificate nel corso del tempo, diventano modelli dinamici di azione, ossia la base per improvvisare combinazioni di passi che in ciascun momento possono essere ballati o sospesi o interrotti e variati in ampiezza, direzione e cadenza. Il che dimostra che quando improvvisiamo — persino nel caso di un assolo25 — non siamo mai soli, e che quello che facciamo non è interamente nostro. Improvvisare significa attivare risorse che ci catapultano al di là di noi stessi e del nostro corpo, chiamando in causa gli altri corpi che ci hanno modellato. Che lo voglia o meno, frammenti del mio passato si intromettono inevitabilmente in quello che — e nel modo in cui — improvviso. Ritroviamo così quanto sottolineato sopra. Sottolineare come ogni improvvisazione abbia necessariamente dei presupposti non ci dice però ancora nulla sulla sua concreta dinamica, e ridurre questa dinamica all’applicazione di quei presupposti annullerebbe la dimensione creativa dell’improvvisazione stessa. Nessuna improvvisazione può essere ricondotta alla mera sporgenza di competenze acquisite. Così come nessuna improvvisazione corrisponde a un evento senza precedenti. Ogni improvvisazione ha dunque costitutivamente e simultaneamente a che fare con due lati fra loro incompatibili : la risposta, e lo scarto, nei confronti di grammatiche acquisite. Una buona analogia, da questo punto di vista, ci sembra quello dello sciare fuori pista. Chi lo fa inventa il proprio tracciato via via che procede. Questo percorso creativo, tuttavia, presuppone l’esistenza del pendio, della neve, degli sci e dell’abilità tecnica dello sciatore. Anche se chi improvvisa è situato nel momento presente ed è privo dell’ausilio di dispositivi come un programma esplicito, attiva nondimeno un insieme di risorse che agevolano la costruzione dell’improvvisazione : la tecnica, la memoria, l’immaginazione, l’uso dello spazio a disposizione, la musica, con il suo carattere sollecitante. Come il bricoleur di cui abbiamo parlato sopra, chi improvvisa si rapporta abilmente alle risorse a disposizione. |
25 Il termine “assolo” alimenta l’immagine fuorviante del gesto raro e solitario, espresso in assoluta autonomia. Se esso appare l’esteriorizzazione di un lampo interiore, è solo perché siamo sedotti dall’immagine della creazione come inizio assoluto. Ma un assolo non è mai un evento isolato ; è corredato di richiami ad assoli precedenti, e soprattutto è “riflessivo”, integra cioè le risposte suscitate presso gli altri dal suo stesso svolgersi, così che il contesto in cui l’assolo si inserisce è la conversazione del collettivo sonoro fatto di diversi attori in relazione di reciprocità. |
7. Aggiustamento e forma estetica Da ultimo ma non per ultimo, l’improvvisazione, nel caso dell’aggiustamento programmato, assume una forma estetica, accostandosi ancora una volta a caratteristiche della programmazione. Come musicisti, invece di subirla, siamo consapevoli della forma e dell’articolazione della musica. Il jazz è improvvisato ma pure organizzato. C’è una logica in questa cronologia di eventi. C’è una consistenza in questo flusso di gesti. Il jazz ha come materiale principale precisamente la contingenza evenemenziale di una forma, intesa come formalizzazione provvisoria dell’accadere informe. Forma rinvia qui non solo a un’unità distintiva ma anche ad un movimento (o configurazione) il cui vettore si vuole vedere continuato. Se si lascia che tutto accada in una sorta di lassismo estetico, subendo un assolo senza sponde, non accadrà proprio nulla di interessante. Improvvisare significa saper rispondere a quello che emerge. A questo posso / voglio rapportarmi. Rispondo, e aggiungo qualcosa. C’è un disegno aperto che stiamo concorrendo a generare. Percepire che qualcosa sta iniziando a prendere forma significa contribuire già al suo sviluppo, imprimendo una direzione al processo in atto. Chi improvvisa insegue e persegue un certo grado di consistenza e riconoscibilità : annette (magari per variarlo) quello che accade adesso a quanto emerso precedentemente. La creatività del jazzista ha una qualità composizionale, essendo basata sulla capacità di collegare i movimenti in frasi. Un fare che, guardando indietro per procedere in avanti, si articola sviluppando la sua propria storia, combinando reiterazione e alterazione26. |
26 Cfr. P.A. Brandt, “La petite machine de la musique”, Acta Semiotica, II, 3, 2022. |
Ad essere in gioco, dunque, con l’improvvisazione produttiva, sono non solo le competenze acquisite, le regole e le grammatiche di riferimento, che, come detto, devono essere “eccellenti” (piuttosto che carenti), ma una competenza ulteriore che non è e non può essere “grammaticalizzata” e che potremmo riconoscere nell’idea di “giustezza” e di un fare “giusto”27. Un tipo di competenza in cui si intrecciano più dimensioni semiotiche, quella aspettuale innanzitutto, in quanto il momento dell’intervento, la sua durata, il giusto momento di uscita, sono condizioni essenziali della “buona improvvisazione”, al pari della capacità di gestire e modulare i suoi caratteri tensivi, cioè la sua intensità e la sua estensione. |
27 Cfr. P. Fabbri, L’efficacia semiotica. Risposte e repliche, Milano, Mimesis, 2017 ; E. Landowski, “Jacques-le-Juste”, Actes Sémiotiques, 115, 2012. |
Detto questo, ribadiamo ancora una volta pure la specificità dell’improvvisazione. Benché l’esecuzione di un programma abbia luogo nel tempo, sia cioè contenuta nel tempo (lo è necessariamente), non contribuisce a plasmarlo. Il fatto che un piano prenda tempo per essere eseguito non ha alcuna particolare conseguenza su (la produzione de) il risultato. Nel caso del jazzista, dunque, l’improvvisazione mette in scena — e ci rende testimone de — la nascita della forma. È questo gioco con la creazione in diretta di una forma ha il potere di catturarci. Una parte della specificità (e dell’eccitazione) creata dall’improvvisazione (e condivisa da alcune pratiche sportive28) è il richiamo su quello che sta accadendo proprio adesso, su una forma che si sta configurando. È tale circostanza — qualcosa sta per succedere, ma non sappiamo esattamente cosa — che eccita la curiosità e cattura l’attenzione (tanto di chi improvvisa quanto di chi osserva chi improvvisa). Il fatto che qualcosa sta avendo luogo qui, e poi lì, e poi più in là. Conclusioni. Lo spazio sociale dell’aggiustamento Fin qui abbiamo cercato di introdurre delle distinzioni interne al regime dell’aggiustamento, e di sottolineare i nessi fra aggiustamento, programmazione e accidente. Per chiudere, ci sembra importante porre enfasi su un ulteriore rapporto fra questi regimi, un rapporto che però non riguarda la natura dell’attività ma, al metalivello, il posto che essi occupano in società. Per certi versi, la nostra è una società della programmazione : i governi si mobilitano per prevenire il rischio e la sicurezza è eletta a valore supremo29, per cui gli accidenti casuali sono oggetto di un intenso lavoro di “previsione” che mira ad esorcizzarli, a ricondurli cioè nell’ambito della programmazione. Eppure, in queste stesse società, oltre a una valorizzazione contraddittoria dell’aggiustamento passivo, ovvero dell’improvvisazione in quanto capacità di agire senza le adeguate competenze di fronte all’evento casuale (il facilone e il bricoleur), sono anche normativamente previsti (ossia programmati) degli spazi per l’aggiustamento produttivo. Incontriamo qui il paradosso di una società della programmazione che al tempo stesso incoraggia gli attori in essa operanti a ricercare l’esperienza eccitante del rischio lecito. Certi sport, il jazz, il tango e diversi altri ambiti, rappresentano attività-limite o attività al limite, edgework activities, secondo la definizione di Lyng30. Forme di extreme leisure imperniate su una quest for excitement, nei termini di Norbert Elias31. Abbiamo insomma a che fare con un peculiare gioco per adulti che implica l’assorbimento piacevole in pratiche fondate sulla presa di rischio volontaria (una wilful imperilment la chiama Elias). Le forme di aggiustamento programmato, ci sembra, rientrano fra tali attività32. |
28 Cfr. H.U. Gumprecht, In Praise of Athletic Beauty, Harvard, Harvard University Press, 2006. 29 Cfr. A. Cavalletti, Sicurezza urbana. La città biopolitica. Mitologie della sicurezza, Milano, Mondadori, 2005. Il regime della programmazione ha una sua dimensione di potere legata alla volontà di predire, dunque controllare e governare, il futuro. Come osserva Jacques Attali : “Il potere appartiene da sempre a chi prevede, o a chi riesce a far credere di esserne capace, o ancora, a chi controlla coloro che riescono a prevedere (…). La storia della previsione è anche, in un certo senso, la storia del potere”. Peut-on prévoir l’avenir ? Paris, Fayard, 2015, p. 19. 30 Cfr. S. Lyng, “Edgework. A social psychological analysis of voluntary risk taking”, American journal of sociology, 95, 4, 1990. 31 N. Elias e E. Dunning, Quest for Excitement : Sport and Leisure in the Civilizing Process, Oxford, Blackwell, 1986. 32 Attività le quali, pur socialmente “prescritte”, possono debordare e diventare ingestibili. La milonga o la jam session non sono certo sport estremi, che spingono quanti lo praticano ai limiti della propria mortalità. Qui si rischia la reputazione (la faccia), e dunque la possibilità di essere notati e accolti — o, al contrario, elusi ed evitati — nelle interazioni a venire. |
Bibliografia Attali, Jacques, Peut-on prévoir l’avenir ?, Paris, Fayard, 2015. Bateson, Gregory, Steps to an Ecology of Mind. Collected Essays in Anthropology, Psychiatry, Evolution, and Epistemology, Chicago, The Universiy of Chicago Press, 2000. Bertinetto, Elesssandro, “‘Mind the Gap’. L’improvvisazione come azione intenzionale”, Itinera, 10, 2015. Bourdieu, Pierre, Esquisse d’une théorie de la pratique (1972), Paris, Seuil, 2000 ; trad. it. Per una teoria della pratica, Cortina, Milano, 2003. Brandt, Per Aage, “La petite machine de la musique”, Acta Semiotica, II, 3, 2022. Cavalletti, A., 2005, Sicurezza urbana. La città biopolitica. Mitologie della sicurezza, Milano, Bruno Mondadori. Derrida, Jacques, “Firma Evento Contesto”, Limited Inc, Evanston, Northwestern University Press ; trad. it, Limited Inc, Milano, Cortina, 1997. Elias, Norbert and Eric Dunning, Quest for Excitement : Sport and Leisure in the Civilizing Process, Oxford, Blackwell, 1986. Fabbri, Paolo, “Turbolenze. Determinazione e impredicibilità”, in T. Migliore (a cura di) Incidenti ed esplosioni. A.J. Greimas, J.M. Lotman per una semiotica della cultura, Roma, Aracne Editrice, 2010. — L’efficacia semiotica. Risposte e repliche, Milano, Mimesis, 2017. — Biglietti d’invito per una semiotica marcata, Milano, Mimesis, 2021. Floch, Jean-Marie, Identités visuelles, Paris, P.U.F., 1995 ; trad. it., Identità visive, Milano, FrancoAngeli, 1997. Gumprecht, Hans Ulrich, In Praise of Athletic Beauty, Harvard, Harvard University Press, 2006. Jankélévitch, Vladimir, La morte (1966), Torino, Einaudi, 2009. Lancioni, Tarcisio, “Us and its Body” in I. Pezzini (a cura di), Paolo Fabbri. Unfolding Semiotics. Pour la sémiotique à venir, Punctum. International Journal of Semiotics – Semiotics Monographs, 1, 2021. Landgraf, Edgar, Improvisation as art, New York, Bloomsbury, 2011. Landowski, Eric, Les interaction risquées, Limoges, Pulim, 2005 ; trad. it. Rischiare nelle interazioni, Milano, FrancoAngeli, 2010. — “Vettura e pittura : dall’utilizzo alla pratica”, in S. Jacoviello, T. Lancioni, A. Mengoni e F. Polacci, Testure. Scritti seriosi e schizzi scherzosi per Omar Calabrese, Siena, Protagon, 2009. — “Avere presa, dare presa”, Lexia, 3-4, 2009. — “Jacques-le Juste”, Actes Sémiotiques, 115, 2012. — “Plaidoyer pour l’esprit de création”, Semiotika (Vilnius), 16, 2021. Lanzara, Giovan Francesco, “Le organizzazioni effimere in ambienti estremi : genesi e strategie di intervento”, Capacità negativa. Competenza progettuale e modelli di intervento nelle organizzazioni, Bologna, Il Mulino, 1993. Lévi-Strauss, Claude, La pensée sauvage, Paris, Plon, 1962 ; trad. it., Il pensiero selvaggio, Milano, Il Saggiatore, 1964. Lotman, Juri M., La cultura e l’esplosione, Milano, Feltrinelli, 1992. Lyng, Stephen, “Edgework. A social psychological analysis of voluntary risk taking”, American journal of sociology, 95, 4, 1990. Marrone, Gianfranco, Dilettante per professione, Palermo, Torri del vento, 2015. Ryle, Gilbert, The concept of mind, Chicago, University of Chicago Press, 1949. Santoro, Gene, Myself When I Am Real : The Life and Music of Charles Mingus, Oxford, Oxford University Press, 2001. Sedda, Franciscu, “Logiche della turbolenza”, Versus, 2, 2021. — “Forme e ritmi dell’imprevedibile”, Acta Semiotica, II, 3, 2022. Sparti, Davide, On the edge. A frame of analysis for improvisation, in George Lewis & Ben Piekut (a cura di), The Oxford Handbook of Critical Improvisation Studies, Oxford, Oxford University Press, 2016. |
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1 E. Landowski, “Plaidoyer pour l’esprit de création”, Semiotika (Vilnius) 16, 2021. 2 Art. cit., p. 262. 3 Cfr. Les interaction risquées, Limoges, Pulim, 2005 ; trad. it. Rischiare nelle interazioni, Milano, FrancoAngeli, 2010. 4 Abbiamo consultato, per l’italiano, lo Zingarelli 2018 e il Devoto-Oli ; per il francese, Le Larousse en ligne e Le Robert en ligne ; per l’inglese il Oxford OALD 2020 e il Merriam-Webster online. 5 Cl. Lévi-Strauss, Claude, La pensée sauvage, Paris, Plon, 1962 ; trad. it., Il pensiero selvaggio, Milano, Il Saggiatore, 1964. J.-M. Floch, Identités visuelles, Paris, P.U.F., 1995 ; trad. it., Identità visive, Milano, FrancoAngeli, 1997. 6 Cfr. “Avere presa, dare presa”, Lexia, 3-4, 2009, pp. 150-153 (“Apprendimento, padronanza, virtuosità”). 7 Cfr. J.M. Lotman, La cultura e l’esplosione, Milano, Feltrinelli, 1992 8 Non mancano ovviamente, nella nostra cultura, valorizzazioni negative del virtuosismo, in particolare quando questa sembra divenire fine a sé stesso, dunque mera esibizione della competenza di un Soggetto incapace di orientarsi verso la produzione di fenomeni / testi “originali”. Così come non mancano le difese del dilettantismo in quanto capacità di adattare il proprio bagaglio di strumenti a qualunque situazione, anche in ambiti in cui non si è competenti (cfr. G. Marrone, Dilettante per professione, Palermo, Torri del vento, 2015). 9 A partire da una riflessione su A.J. Greimas, Dell’imperfezione (1987), Franciscu Sedda propone il concetto di turbolenza per designare il termine neutro fra continuità e discontinuità. Si vedano in proposito : “Logiche della turbolenza”, Versus, 2, 2021, e “Forme e ritmi dell’imprevedibile”, Acta Semiotica, II, 3, 2022. Sulla turbolenza si veda anche Paolo Fabbri : “Turbolenze. Determinazione e impredicibilità” in T. Migliore (a cura di), Incidenti ed esplosioni. A.J. Greimas, J.M. Lotman per una semiotica della cultura, Roma, Aracne, 2010. 10 Cfr. D. Sparti, On the edge. A frame of analysis for improvisation, in G. Lewis & B Piekut (eds.), The Oxford Handbook of Critical Improvisation Studies, Oxford, Oxford University Press, 2016. 11 Cfr. G. Lanzara, “Le organizzazioni effimere in ambienti estremi : genesi e strategie di intervento”, Capacità negativa. Competenza progettuale e modelli di intervento nelle organizzazioni, Bologna, Il Mulino, 1993. 12 Cfr. E. Landgraf, Improvisation as art, New York, Bloomsbury, 2011, p. 39. 13 “Firma Evento Contesto”, Limited Inc, Evanston, Northwestern University Press, p. 19 (trad. it, Limited Inc, Milano, Cortina, 1997 14 Cfr. E. Landgraf, op. cit., pp. 4 e 23-24. 15 Sulla relazione dialettica tra visione e procedimento, cfr. E. Landowski, “Vettura e pittura : dall’utilizzo alla pratica”, in S. Jacoviello, T. Lancioni, A. Mengoni e F. Polacci, Testure. Scritti seriosi e schizzi scherzosi per Omar Calabrese, Siena, Protagon, 2009, p. 299. 16 E. Landgraf, op. cit., p. 38. Cfr. anche F. Sedda, “Forme e ritmi dell’imprevedibile”, art. cit. 17 Cfr. A. Bertinetto, “‘Mind the Gap’. L’improvvisazione come azione intenzionale”, Itinera, 10, 2015, pp. 179 e 187. 18 V. Jankélévitch, La morte (1966), Torino, Einaudi, 2009, p. 18. 19 P. Bourdieu, Esquisse d’une théorie de la pratique (1972), Paris, Seuil, 2000, p. 377. 20 La tentazione di pensarlo emerge soprattutto nei confronti di quei gruppi jazz che praticano forme di improvvisazione radicale, le quali — attenzione — si basano sulla seguente regolamentazione : non si parla della musica fuori dalla performance, non si fanno prove, non si concorda nulla a priori, non si danno titoli ai dischi o ai brani. 21 Sui rapporti fra conversazione e improvvisazione jazzistica si veda anche P. Fabbri, Biglietti d’invito per una semiotica marcata, Milano, Mimesis, 2021. Sui processi di gestione dei concatenamenti discorsivi come pratiche di aggiustamento si veda T. Lancioni, “Us and its Body” in I. Pezzini (a cura di), Paolo Fabbri. Unfolding Semiotics. Pour la sémiotique à venir, Punctum. International Journal of Semiotics – Semiotics Monographs, 1, 2021. 22 Cfr. G. Ryle, The concept of mind, Chicago, University of Chicago Press, 1949. 23 G. Bateson, Steps to an Ecology of Mind. Collected Essays in Anthropology, Psychiatry, Evolution, and Epistemology, Chicago, The Universiy of Chicago Press, 2000, p. 138. 24 G. Santoro, Myself When I Am Real : The Life and Music of Charles Mingus, Oxford, Oxford University Press, 2001, p. 271. 25 Il termine “assolo” alimenta l’immagine fuorviante del gesto raro e solitario, espresso in assoluta autonomia. Se esso appare l’esteriorizzazione di un lampo interiore, è solo perché siamo sedotti dall’immagine della creazione come inizio assoluto. Ma un assolo non è mai un evento isolato ; è corredato di richiami ad assoli precedenti, e soprattutto è “riflessivo”, integra cioè le risposte suscitate presso gli altri dal suo stesso svolgersi, così che il contesto in cui l’assolo si inserisce è la conversazione del collettivo sonoro fatto di diversi attori in relazione di reciprocità. 26 Cfr. P.A. Brandt, “La petite machine de la musique”, Acta Semiotica, II, 3, 2022 27 Cfr. P. Fabbri, L’efficacia semiotica. Risposte e repliche, Milano, Mimesis, 2017 ; E. Landowski, “Jacques-le-Juste”, Actes Sémiotiques, 115, 2012. 28 Cfr. H.U. Gumprecht, In Praise of Athletic Beauty, Harvard, Harvard University Press, 2006. 29 Cfr. A. Cavalletti, Sicurezza urbana. La città biopolitica. Mitologie della sicurezza, Milano, Mondadori, 2005. Il regime della programmazione ha una sua dimensione di potere legata alla volontà di predire, dunque controllare e governare, il futuro. Come osserva Jacques Attali : “Il potere appartiene da sempre a chi prevede, o a chi riesce a far credere di esserne capace, o ancora, a chi controlla coloro che riescono a prevedere (…). La storia della previsione è anche, in un certo senso, la storia del potere”. Peut-on prévoir l’avenir ? Paris, Fayard, 2015, p. 19. 30 Cfr. S. Lyng, “Edgework. A social psychological analysis of voluntary risk taking”, American journal of sociology, 95, 4, 1990. 31 N. Elias e E. Dunning, Quest for Excitement : Sport and Leisure in the Civilizing Process, Oxford, Blackwell, 1986. 32 Attività le quali, pur socialmente “prescritte”, possono debordare e diventare ingestibili. La milonga o la jam session non sono certo sport estremi, che spingono quanti lo praticano ai limiti della propria mortalità. Qui si rischia la reputazione (la faccia), e dunque la possibilità di essere notati e accolti — o, al contrario, elusi ed evitati — nelle interazioni a venire. |
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______________ Résumé : L’article propose une réflexion sur les pratiques de l’improvisation, tant dans la sphère quotidienne, où l’improvisation est nécessaire pour réorienter une situation face à l’émergence d’un événement inattendu, que dans la sphère créative, et en particulier dans la performance du jazz, où elle répond à un système spécifique d’attentes et dans laquelle sa fonction n’est pas de résoudre ou de nier la discontinuité créée par l’inattendu, mais vise plutôt à la rendre « productive » (esthétiquement) en maintenant la discontinuité elle-même ouverte et en la relançant continuellement, dans un processus de négation et d’affirmation. A partir de cette réflexion, l’article propose une réarticulation du modèle des régimes d’interaction élaboré par Eric Landowski, suggérant l’idée d’un ajustement programmé. Resumo : O artigo propõe uma reflexão sobre as práticas de improvisação, tanto na esfera cotidiana, na qual improvisar é necessário para reorientar uma situação quando ocorre um evento inesperado, quanto na esfera da criação e, em particular, na performance do jazz, na qual ela permite responder a um dado sistema de expectativas, sem resolver ou negar a descontinuidade inesperada mas tornando-a esteticamente produtiva ao manter a própria descontinuidade aberta, relançando-a continuamente num processo de negação e afirmação. A partir desta reflexão, o artigo propõe uma rearticulação do modelo dos regimes interacionais elaborado por E. Landowski, sugerindo a ideia de um ajustamento programado. Abstract : The article proposes a reflection on the practices of improvisation, both in everyday life, where improvisation is necessary to reorient a situation in the face of an unexpected event, and in the creative sphere, particularly in jazz performance, where improvisation responds to a specific system of expectations. There, instead of resolving or negating the discontinuity created by the unexpected, it rather aims at making it aesthetically “productive” by keeping open and continuously relaunching the discontinuity itself in a process of negation and affirmation. Starting from this reflection, the article also proposes a rearticulation of the model of the interaction regimes developed by E. Landowski by suggesting the idea of programmed adjustments. Sommario : L’articolo propone una riflessione sulle pratiche dell’improvvisazione, sia in ambito quotidiano, laddove l’improvvisazione si rende necessaria per “ricucire” o riorientare una situazione a fronte dell’emergenza di un imprevisto, sia in ambito creativo, e in particolare nell’esecuzione jazzistica, in cui l’improvvisazione risponde a uno specifico sistema di attese e in cui non ha la funzione di risolvere o negare la discontinuità creata dall’imprevisto, ma mira anzi a renderla “produttiva” (esteticamente), mantenendo aperta e rilanciando in modo continuo la discontinuità stessa, in un processo di negazione e affermazione. A partire da questa riflessione, l’articolo propone una riarticolazione interna del modello dei regimi di interazione elaborato da Eric Landowski suggerendo l’idea di un aggiustamento programmato. Mots clefs : ajustement programmé, compétence improvisation, processus créatifs. Auteurs cités : Gregory Bateson, Pierre Bourdieu, Per Aage Brandt, Jacques Derrida, Norbert Elias, Paolo Fabbri, Jean-Marie Floch, Vladimir Jankélévitch, Edgar Landgraf, Eric Landowski, Giovan F. Lanzara, Claude Lévi-Strauss, Juri M. Lotman, Stephen Lyng, Gianfranco Marrone, Gilbert Ryle, Gene Santoro, Franciscu Sedda. Plan : 3. Un aggiustamento che presuppone la programmazione 5 L’improvvisazione come pratica |
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Recebido em 30/06/2022. / Aceito em 10/08/2022. |