Le point sémiotique

Traduzioni arrischiate
per messe a punto necessarie

Franciscu Sedda
Università di Cagliari

Publié en ligne le 30 juin 2022
https://doi.org/10.23925/2763-700X.2022n3.58393
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A che punto è la semiotica della cultura ? I cento anni dalla nascita di Jurij Lotman, padre riconosciuto di questo approccio alla significazione, spinge a porsi la domanda e a fare il punto della situazione. O quantomeno a mettere qualche punto per orientarsi in uno spazio talmente vasto da rendere difficile se non impossibile fornirne una sintesi.

 

Proviamo intanto ad elencare alcuni dati positivi.

Il convegno del centenario svoltosi a fine febbraio in Estonia, sotto gli auspici del presidente della Repubblica baltica, ha messo insieme centinaia di studiosi. Questo nonostante la pandemia e i terribili venti di guerra che già spiravano sull’Europa orientale. Segno di un approccio semiotico vivo e combattivo.

Nata negli anni Sessanta all’incrocio fra studi letterari, folklorici e linguistici, identificata con una scuola estiva nella periferica Tartu, animata principalmente da studiosi provenienti dai paesi dell’allora Unione Sovietica, la semiotica della cultura conta oggi adepti sparsi per il mondo, non solo fra i semiologi e tantomeno fra gli studiosi di slavistica. In tal senso la semiotica della cultura vive un moto espansivo, che ad altre scuole semiotiche a volte manca, e una capacità di penetrazione effettivamente planetaria.

Il riferimento alla semiotica della cultura è peraltro sempre più trasversale a tutti i campi e gli approcci semiotici. Dopo il consolidamento dell’impianto teorico-metodologico per l’analisi dei testi e della comunicazione, all’inizio del millennio è diventato sempre più comune situare i lavori della disciplina all’interno di una qualche cornice semiotico-culturale. Segno dei tempi. L’idea di semiosfera, proposta nel 1984, sopravanza la globalizzazione (con le sue realtà e le sue mitologie) degli anni Novanta. Non solo. A saperne leggere le implicazioni, l’idea di semiosfera anticipava i complessi nessi fra conflitto e negoziazione, frammentazione e aggregazione, ibridazione e autodefinizione che oggi ci appaiono così evidenti a tutti i livelli della vita sociale e ci aiutano a percepire lo spazio planetario nella sua complessità. In un mondo diviso in rigidi blocchi ideologici, in cui lo sviluppo delle arti veniva pensato per stadi e le civiltà per gradi di sviluppo, in cui cultura e natura venivano considerate sfere nettamente separate, la visione lotmaniana stimolava a percepire finalmente la dimensione connettiva, olistica, ecologica delle nostre esistenze, a vedere la comune rete semiotica che unisce “i segnali dei satelliti, i versi dei poeti, le grida degli animali”. Al contempo chiedeva di renderci conto che questa rete non è né piatta né omogenea : fatta di molteplici testi e linguaggi, luogo di esplosioni generate dall’incontro fra le formazioni che la compongono, stratificata dai continui tentativi che dal suo stesso interno cercano di definirne confini, centri, orientamenti, la semiosfera si rivela una totalità pulsante e dinamica, in cui molteplici forme di indipendenza e interdipendenza si inscatolano, sovrappongono, rincorrono. È il nostro mondo odierno, preso fra guerre e solidarietà, pandemie e coscienza planetaria. Non è un caso che tante studiose e studiosi si riconoscano in essa e attraverso essa, quasi che la semiosfera fosse un simbolo prima ancora che un concetto.

 

Questi aspetti sommariamente tratteggiati potrebbero condurre ad un rendiconto totalmente positivo. Va da sé che le cose sono ben più articolate e sfumate.

In primo luogo, va ovviamente notato che la semiotica della cultura, e in particolar modo quella che fa esplicito riferimento a Lotman, è solo una parte dell’intero e multiforme campo semiotico. Questo non sarebbe di per sé un problema se non fosse che a volte essa è poco conosciuta da chi pratica altre semiotiche, magari intente a lavorare sulle dinamiche culturali, o di converso è vissuta da alcuni come una fede esclusiva, come se tutto fosse già stato detto da Lotman. Queste due posizioni non possono trarre vantaggio da quell’intima natura traduttiva che è uno dei grandi punti saldi e una delle grandi eredità della semiotica lotmaniana. In altri termini, la semiotica della cultura potrebbe e dovrebbe offrirsi come spazio di traduzione fra scuole e approcci semiotici diversi e spesso ritenuti inconciliabili. Non a caso in essa alcune delle polarità che hanno spartito la semiotica — penso ad esempio al rapporto fra langue e parole, sincronia e diacronia, semantica e pragmatica, vita e testi — trovano composizione o sono mobilitate congiuntamente. Ciò non significa certo che la semiotica della cultura abbia risolto tutto quanto vi è da dire in materia ma che essa si presenta come spazio di pensiero che per sua stessa natura favorisce la ricucitura fra approcci differenti alla significazione.

Un problema di diverso tipo è invece quello legato all’utilizzo parcellizzato ed ornamentale dei concetti lotmaniani. Questa attitudine, mossa in molti casi dal lodevole intento di gettare ponti con altri ambiti disciplinari o concetti, rischia tuttavia di trasformare la semiotica della cultura in una imitazione dei cultural studies, soprattutto di quelli che rifiutano ogni metodo fino a sfociare in un puro soggettivismo (para)letterario o (para)politico. È evidente che ogni ricerca fa storia a sé in termini di profondità analitica e di presa sui fenomeni, e dunque non sempre l’incontro fra culturologia e cultural studies si risolve in qualcosa di negativo. Del resto il rischio non è tanto quello di una perdita di identità esteriore della semiotica della cultura quanto di smarrimento di quella sensibilità intima, per così dire, che è alla base della semiotica culturale (e a nostro modo di vedere della semiotica tutta) : ovvero la capacità di scandagliare relazioni (anzi, relazioni su, di, con relazioni) e attraverso esse cogliere il definirsi di ciò che è naturale o culturale, reale o segnico, interno o esterno, locale e globale, proprio o altrui (così proseguendo e considerando queste coppie solo come la base di più ampie matrici differenziali) tanto quanto il fatto che lo stesso soggetto che ricerca è parte in causa di questa trama relazionale in divenire, in traduzione.

Un segno di stanchezza rispetto all’impegno di portare con sé e mettere al lavoro il bagaglio epistemologico-teorico-metodologico ereditato ci pare di intravvederlo nel modo in cui a volte si separa con troppa risolutezza un Lotman pre- e post- strutturalista, o addirittura pre- e post- semiotico !, laddove ancora nelle sue ultime opere Lotman rivendica una concezione strutturalista del testo e un’attitudine semiotica allo studio del senso, compreso quello studio che riguarda la storia con i suoi sviluppi graduali ed esplosivi.

È vero che negli ultimi testi la prosa di Lotman si fa sempre più letteraria, artistica, personale, ben distante da quella che accompagnava i tentativi tipologico-definitori del testo poetico e della cultura degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta. L’andamento apparentemente erratico generato dalla copiosa mobilitazione del materiale d’analisi (dalle opere d’arte agli aneddoti di vita quotidiana) che offre un’impressione di superamento dell’interesse rispetto alle “strutture” non smette tuttavia di farci apprezzare questi materiali in quanto ricettori e produttori di relazioni : luoghi di affioramento, costituzione, trasformazione di più vaste configurazioni di significazione. Né Lotman rinuncia a scorgere dietro e grazie ai concreti fatti della cultura, come a volte li chiama, modelli e tipologie generali, o detto altrimenti forme della temporalità, spazialità, attorialità. Certo, tutto appare più concreto e incorporato, ma questo non fa altro che anticipare quella esigenza del pensare attraverso le cose, la materialità, i corpi che dagli anni Ottanta ha investito la ricerca internazionale nelle scienze culturali. Lo stesso sbilanciamento verso i temi dell’imprevedibilità del divenire storico, più che portarci fuori dal campo semiotico ne evidenzia la flessibilità : la capacità degli strumenti semiotici, ben messi al lavoro, di riuscire a fare i conti con il formarsi e trasformarsi nel tempo della trama di relazioni in cui siamo costantemente immersi.

 

Andrebbe del resto tenuto conto che proprio mentre parte della semiotica divorziava dai modelli, dalle tipologie, dalle strutture altri invece le rivalutavano e ne facevano cavalli di battaglia, magari sotto nomi ancor più ambiziosi e scivolosi, come quello di ontologie : si pensi a quelle individuate da Philippe Descola che sono al centro del dibattito antropologico, o alla maniera di affrontare relazionalmente le forme dei collettivi, i loro regimi di azione, percezione, esistenza, in lavori come quelli di Bruno Latour, Eduardo Viveiros de Castro o François Jullien.

Situazione a dir poco paradossale se si considera che in un passaggio che ha il sapore di un testamento nel 1993 Lotman non solo non indietreggiava rispetto alla semiotica come “scienza che si occupa dello studio della teoria e della storia della cultura”, vale a dire come scienza capace di dare della cultura “una descrizione strutturale”, ma indicava come futuro compito della disciplina “la creazione di una teoria generale delle strutture, teoria che comprenda tutte le forme di organizzazione del mondo, da quelle fisiche a quelle culturali”.

Compito enorme, certamente capace di scoraggiare più d’uno. Lotman stesso con un eccesso di umiltà lo riteneva fuori dalla sua portata, nonostante in più punti avesse avanzato ipotesi generali sul rapporto fra le strutture del cervello, della comunicazione, della cultura, del cosmo.

Il punto, dunque, non è l’accantonamento per umiltà o per timore di un progetto di questa portata — peraltro lo studio del vivente, attraverso biosemiotica e zoosemiotica ha conosciuto nuova fortuna — quanto il fastidio per l’impronta strutturalista che ad esso era collegata e che andava invece ulteriormente tradotta e resa produttiva. Un caso tanto eclatante quanto rivelatorio di questo atteggiamento è stata ed è la stereotipa critica al binarismo, che non tiene in alcun conto (almeno) tre cose : 1) per Lotman il binarismo era la minima condizione per stabilire una tensione differenziale, produttiva di senso, come il dialogo fra due attori è la minima condizione di un polilogo fra molti ; 2) il binarismo è, piaccia o non piaccia, un esito delle dinamiche discorsive e dunque rifiutarlo a priori significa rifiutare di capire interi pezzi della realtà e delle sue dinamiche : come se l’avversione al monismo ci impedisse di vedere che c’è chi dà senso al mondo attraverso il monoteismo religioso ; 3) proprio la paura di rimanere ingabbiati nel binarismo, anche a livello metodologico, avrebbe dovuto e potuto trarre vantaggio da modelli, come quello sviluppato da Greimas e dalla Scuola di Parigi, che pur partendo da opposizioni binarie hanno sviluppato matrici più complesse per tracciare relazioni differenziali, offrendo la possibilità di pensare le posizioni (e trasformazioni) fra relazioni di contrarietà, contraddizione, complementarietà, complessificazione, neutralizzazione, ecc. Il tutto senza che ciò significhi che il modello greimasiano abbia esaurito le possibilità di pensare e modellizzare le relazioni — crediamo ad esempio che un suo utilizzo tridimensionale sia ancora da sviluppare — o che questo modo di trattare le relazioni sia necessariamente alternativo ed escludente rispetto a quello sviluppato a partire da Peirce — laddove, abbiamo argomentato altrove, il punto è piuttosto capire come i due portano uno sull’altro o interferiscono andando a generare la sfuggente complessità delle dinamiche del senso.

 

La semiotica della cultura, in altri termini, non ha ancora finito di esplodere e far esplodere la semiotica intera. Anzi. È costantemente protesa oltre i suoi stessi limiti, oltre lo stesso spazio socioculturale strettamente inteso. Tuttavia vale qui la pena soffermarsi proprio su questo spazio e vedere come, dal confronto con la sociosemiotica di matrice strutturale, si possano ricavare alcune indicazioni utili per la semiotica contemporanea.

La prima indicazione che ci pare interessante rimanda ad una questione di stile. La semiotica culturale e la sociosemiotica sembrano infatti sfidarci a trovare un complesso punto di equilibrio fra formalizzazione e comunicatività, fra sviluppo di modelli e qualità della scrittura, fra mobilitazione analitica del metalinguaggio e leggibilità del processo analitico stesso e delle sue risultanze. Se una descrizione senza metodo e senza rigore concettuale (e dunque, almeno implicitamente, senza rigore metalinguistico) rischia di essere puro impressionismo è altrettanto vero che una fissazione metalinguistica può nascondere e depotenziare i contenuti stessi della ricerca, il loro valore sociale, facendo apparire il lavoro semiotico — nel peggiore dei casi — come vuoto, autoreferenziale, fine a se stesso. Trovare il punto di equilibrio fra profondità e leggibilità non è semplice. Così come non è facile trovare un modo personale di generare questo equilibrio, tanto più in un momento in cui le nostre scritture sono spinte ad uniformarsi a canoni di valutazione imposti dalle procedure di accesso alle pubblicazioni internazionali. La stessa scrittura lotmaniana sembra oggi qualcosa non solo di irripetibile ma difficilmente proponibile : un testo di Lotman sottoposto in forma anonima ad un revisore pignolo apparirebbe probabilmente fuori da quegli standard discorsivi che garantiscono la “scientificità” e l’“accademicità” della scrittura contemporanea. Ciò detto, vale comunque un assunto : se si hanno cose da dire — se il lavoro semiotico ci mette in grado di spiegare di più per comprendere meglio, o addirittura di scoprire cose che senza il metodo semiotico non vedremmo — allora vale la pena di cercare di farle arrivare. E far arrivare al pubblico, accademico e non solo, insieme ai risultati della ricerca anche il metodo e il processo attraverso cui quei risultati sono stati ottenuti. La sociosemiotica (pensiamo fra gli altri ad alcuni lavori di Landowski, Marrone, Pezzini, de Oliveira) come la semiotica della cultura (da Lotman a Fabbri) offre esempi riusciti di lavoro sul confine fra metalinguaggio e leggibilità, fra densità della formalizzazione e piacere del testo, per così dire. Certo, ci possono essere gradazioni differenti fra questi due poli. E queste gradazioni, come accennavamo sopra, dipendono anche dal luogo di apparizione dei nostri enunciati : è evidente infatti che la pubblicazione di saggi in rivista si presta meno che delle monografie originali, sempre più rare, alla sperimentazione di uno stile personale di veicolare la ricerca semiotica e i suoi risultati.

 

Un secondo punto che mi pare esca enfatizzato dal rapporto fra semiotica della cultura e sociosemiotica è il ruolo dei vissuti come oggetto d’analisi. All’annosa (e sterile) distinzione fra testi e pratiche si sostituisce invece l’analisi della cultura (o della discorsività) come spazio denso, formato e trasformato da molteplici formazioni semiotiche, capace di rendere la salienza della vita, con le sue interazioni e correlazioni. Certo, l’analisi della vita quotidiana — con le sue estetiche ed estesiche — è solo un livello che non esclude altre pertinentizzazioni del materiale discorsivo-culturale. Del resto Lotman invitava a illuminare la vita quotidiana attraverso i grandi fatti della cultura o a vedere attraverso i fatti minimi dell’esistenza le grandi dinamiche macroculturali, come in una sorta di moto perpetuo intellettuale. Resta il fatto che leggendo l’ultimo Lotman è davvero difficile tirare una linea di principio fra ciò che è testo e ciò che è vita, ciò che è finzionale e ciò che reale : sono piuttosto le singole analisi, con i loro concatenamenti di testi, con le loro correlazioni fra discorsi, a dirci dove un confine fra vita e testi, fra reale e simbolico, si situa. Sempre che si situi ! Dato che molto lavoro semiotico è fatto proprio per rendere il confine poroso, labile, se non inesistente. Questo ci ricorda che il punto nodale della semiotica non è quello relativo al reperimento di una realtà prima o ultima ma ai modi in cui del reale viene tradotto — condiviso o contestato – attraverso i più vari processi e sistemi di significazione.

 

Il terzo aspetto ci riporta alla semiotica della cultura degli anni Settanta, quando Lotman sviluppa l’idea di testo come “modello di mondo”. Ogni testo modella e offre un modello. O se si preferisce modella proprio perché attraverso la sua apparente unicità offre un modello. Un modello del suo mondo di riferimento, ma anche del mondo più in generale. Ogni frammento rimanda a delle totalità, ogni parole implica una langue che più o meno inavvertitamente fa mondo. Si tratta di una dinamica che rimanda a quella specularità, a quello spettacolo del sociale, insito nell’idea di discorsività che è al cuore dell’approccio sociosemiotico. Ora, questa specularità può essere letta come una riflessività performativa : una catena di traduzioni che di modellizzazione in modellizzazione forma il reale, articola lo spazio dentro cui o rispetto a cui prendiamo posizione, rende conto dell’agentività e dei conflitti fra punti di vista e proposte di mondo proprie a differenti soggettività. Nulla di eccezionalmente nuovo. Ma un ritorno su questa idea attraverso una lettura incrociata dell’approccio semiotico culturale e di quello sociosemiotico può fornire a tutte e tutti, in primis ai nostri studenti, un quadro di riferimento generale per affrontare i temi dell’azione, del conflitto, del potere, dell’identificazione che per pigrizia o per prudenza certe analisi strettamente testuali, per quanto ben fatte, evitano di prendere in considerazione.

 

Infine, quarto aspetto che ci pare rilevante : semiotica della cultura e sociosemiotica si sono sempre più interessate al tema della processualità e del dinamismo, tanto sincronico che diacronico. Le distinzioni fra sviluppi culturali graduali ed esplosivi, fra interazioni programmate o aleatorie — solo per richiamare alcuni concetti chiave — dimostrano che la semiotica di marca strutturale non è affatto distante dalle preoccupazioni legate alle trasformazioni, al divenire, all’imprevedibilità. Si tratta anche qui di capire come far comunicare teorie assonanti ma nate da urgenze differenti, situate dentro quadri teorici non omologhi, sviluppate a partire da analisi di fenomeni che si situano ad un livello di scala diversa. Nel gioco di confronto non c’è garanzia di sintesi. È molto probabile, tuttavia, che la ricerca di una traducibilità possa rafforzare la capacità della semiotica contemporanea di dar conto del dinamismo del senso o portare addirittura a delle esplosioni teoriche inattese.

 

Queste poche pagine sono partite con il pretesto di fare il punto sulla semiotica della cultura : è evidente che questo compito risulta molto lontano dal suo compimento. Non solo la semiotica della cultura nel suo insieme, ma la stessa opera di Lotman e i suoi incroci possibili con la sociosemiotica passata e contemporanea, esorbitano queste poche pagine e le nostre stesse possibilità intellettuali. Cosa rimane dunque ? Più che il punto della situazione, restano dei punti situati su una mappa o su un foglio, in funzione di promemoria, di cose e dialoghi da fare (o, a volte, da evitare).

Del resto lo stesso Lotman, durante un convegno sulle eredità intellettuali, aveva detto : “La gallina fa l’uovo e scappa via e noi restiamo a guardare l’uovo. Le nostre opere sono l’uovo ma l’arte è la gallina”. Ciò che vale per l’arte in generale vale anche per l’arte di pensare semioticamente, pensare la cultura, sviluppata da Lotman. Anticipando ancora una volta i tempi, Lotman ci ha sfidato ieri e ci sfida in questo centenario ad andare al cuore delle sue opere, e forse persino al di là di esse. Una sfida ad affinare, anche grazie ed attraverso lui, un pensiero realmente eterodosso, mai riduzionista, stereoscopico, capace di avanzare attraverso continui spiazzamenti del punto di vista : ritrovare il proprio nell’altrui e l’altrui nel proprio, la storia nel quotidiano e il quotidiano nei grandi eventi storici, le cose nei segni e i segni nelle cose e così via incrociando. Un punto di vista che non si limita a comprendere l’esistente ma anche a creare il nuovo attraverso traduzioni ancora da fare. Traduzioni certo arrischiate ed imperfette ma da cui non ci si può sottrarre. Forse è questo l’unico vero punto di questo nostro discorso.

 

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Résumé : Le centenaire de la naissance de Yuri M. Lotman a favorisé un regain d’attention pour la sémiotique de la culture et donné l’occasion de faire le point sur ses développements. Cet article se concentre sur le succès de cette approche devenue globale, sur les risques qu’entraînerait la sous-estimation de ses racines structurales, sur le dialogue possible avec notamment la socio-sémiotique, cela à partir de quatre points nodaux : l’exigence d’une écriture qui soit communicative sans sacrifier les références à la méthode et à la pratique analytique, la corrélation profonde entre la vie et les textes, la relation entre les textes en tant que « modèles de monde » et la discursivité en tant que lieu de constitution réflexive du social, l’attention portée aux dynamiques de transformation du sens sur un mode graduel et imprévisible, programmé ou aléatoire, tant sur le plan historique qu’au niveau de l’interaction entre les corps.


Resumo : O centenário do nascimento de Jurij M. Lotman favoreceu um retorno de atenção à semiótica da cultura e é a oportunidade para fazer um balanço de seus desdobramentos. A intervenção centra-se no sucesso desta abordagem que se tornou global, nos riscos inerentes a uma prática que subestima as suas raízes teóricas estruturais, nos diálogos possíveis com um contexto como o sociossemiótico a partir de quatro pontos-chave : a necessidade de uma escrita que seja comunicativa sem sacrificar as referências ao método e à prática analítica, a profunda correlação entre vida e textos, a relação entre os textos como “modelos do mundo” e a discursividade como lugar de constituição reflexiva do social, a atenção às dinâmicas de transformação de sentido de forma gradual ou imprevisível, programada ou aleatória, tanto a nível histórico quanto a nível das interações entre corpos.


Sommario : Il centenario dalla nascita di Jurij M. Lotman ha favorito un ritorno d’attenzione sulla semiotica della cultura ed è l’occasione per fare il punto sui suoi sviluppi. L’intervento si concentra sulla fortuna di questo approccio divenuto globale, sui rischi insiti in una sua pratica che ne sottovaluti le radici teoriche strutturali, sui dialoghi possibili con un ambito come quello sociosemiotico a partire da quattro punti nodali : l’esigenza di una scrittura che sia comunicativa senza sacrificare i riferimenti al metodo e alla prassi analitica, la profonda correlazione fra vita e testi, il rapporto fra testi come “modelli di mondo” e la discorsività come luogo di costituzione riflessiva del sociale, l’attenzione per le dinamiche di trasformazione del senso in forma graduale o imprevedibile, programmata o aleatoria, tanto a livello storico quanto a livello di interazioni fra corpi.


Mots clefs : Lotman, semiotica della cultura, significazione, sociosemiotica, strutturalismo, vita.

 

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Recebido em 20/05/2022. / Aceito em 30/05/2022.