Analyses et descriptions

Appunti per una
sociosemiotica del
giardinaggio

Giorgio Grignaffini
Università IULM, Milano

Publié en ligne le 4 mars 2021
https://doi.org/10.23925/2763-700X.2021n1.54153
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Introduzione

La semiotica ha sviluppato numerose riflessioni e modelli di analisi dedicati alle azioni del vivere quotidiano o, più esattamente, alla produzione di senso nel quadro di qualsiasi tipo di interazione, non soltanto tra uomini, ma anche fra soggetti e oggetti. Qui, la classe specifica di “oggetti” di cui si tratterà in quanto “partners” dell’agire umano costituisce un tipo di attore poco investigato dalla semiotica strutturale : le piante. Proveremo ad abbozzare qualche riflessione sulle interazioni che si sviluppano tra le piante e chi coltiva orti o giardini. Non lo faremo sulle basi di testi che descrivono tali azioni, neanche testi esemplari quali, ad esempio, i manuali di giardinaggio o orticultura. Invece, è a partire dell’osservazione “fenomenologica” (e delle proprie esperienze) di questa attività — il giardinaggio — che cercheremo di ritrovare nell’agire stesso dei soggetti, nel loro “fare” o nelle loro “pratiche”, delle regolarità che possono essere modellizzate utilizzando gli strumenti semiotici.

L’oggetto giardino, è vero, è stato affrontato molte volte nell’ambito della semiotica strutturale. Ma l’attenzione si è concentrata soprattutto sull’analisi delle dimensioni spaziali del giardino, delle relazioni che esso intrattiene con la nozione di “paesaggio”, o del tipo di fruizione che le sue caratteristiche prevedono (funzionale o estetica, cognitiva o patemica). In un articolo che riassume i contributi delle Giornate di studio “Semiotiche sincretiche e lo spazio del giardino”1, Maria Giulia Dondero sottolinea come tra gli argomenti in discussione ci fossero in primo luogo preoccupazioni di tipo tassonomico come la possibilità di “distinguere a priori tra la morfologia del giardino e, per esempio, quella dell’orto, del parco e del paesaggio ; e come individuare le soglie tra città e giardino, oasi e giardino, giardino e campagna, giardino ed edificio”2. La stessa autrice prosegue osservando come la metodologia semiotica si fosse applicata all’oggetto d’analisi seguendo sostanzialmente due approcci:

1 Bertinoro (FC), 10-11 dicembre 2004.

2 M.G. Dondero, “Approcci semiotici alla configurazione del giardino”, E/C, 2005, p. 1.

Si tratta di scegliere epistemologicamente tra due vie : se l’analisi semiotica parte dalla configurazione morfologica del giardino, e considera le organizzazioni spaziali come guida e modello per i percorsi dell’osservatore, si giungerà a tracciare percorsi simulacrali, a enumerare le possibilità di fruizione e prevedere gli effetti di senso sui visitatori. Se invece si parte da un punto di vista più fenomenologico, sono proprio le pratiche sociali ed esperienziali che in un certo luogo si compiono o sono state compiute (ascoltare musica, odorare erbe, fiori e verdure, osservare i giochi d’acqua delle fontane, le sculture, le architetture, soffermarsi sulle iscrizioni, etc.) ad individuare e costituire lo spazio del giardino e a differenziarlo dalle altre forme di spazialità. (ibid.)

In tutti i casi — sia che si consideri il giardino come uno spazio in relazione o in opposizione ad altri spazi, sia che si sottopongano all’analisi le strategie enunciazionali inscritte nelle forme del giardino, sia, ancora, che ci si concentri sul rapporto che il soggetto fruitore instaura con questo particolare spazio, riscrivendolo ogni volta che lo percorre — si tratta di prendere in considerazione il giardino come un dato acquisito, il risultato finale di una pratica architettonica, paesaggistica, artistica. In questa direzione vanno anche articoli importanti come quelli di Hermann Parret e di Claude Zilberberg3, che ne riprende le premesse, dedicati al giardino come “forma di vita”. In entrambi i casi ad essere al centro della riflessione sono alcune delle forme storicamente più diffuse di giardino, quello all’italiana, alla francese, all’inglese e alla cinese: quattro schemi di progettazione dello spazio, ognuno dotato di caratteristiche peculiari, esteticamente prestabiliti e temporalmente situati.

3 H. Parret, Le Sublime du Quotidien, Amsterdam, Benjamins, 1988 ; C. Zilberberg, “Le jardin comme forme de vie”, http://claudezilberberg.org/portal/wp-content/uploads/2013/10/Le-Jardin-comme-forme-de-vie-copie.pdf.

Quello che invece cercheremo di fare in questa sede è di prendere in considerazione l’agire del coltivatore (giardiniere o orticoltore), per verificare in che modo esso possa essere considerato a più livelli come attività dotata di senso e quindi meritevole di un’analisi semiotica. Non quindi uno studio dei giardini in quanto manufatti già realizzati, ma qualche spunto di riflessione sul fare del giardiniere.

1. Un inquadramento generale

1.1. “Natura e cultura”

La prima osservazione è quella che riguarda la qualificazione di chi agisce e il suo ambito di azione, il giardino o l’orto4. Il soggetto che agisce in uno di questi ambiti con l’obiettivo di ottenere dei risultati estetici o produttivi, lo definiremo in questa prima fase genericamente “coltivatore”. Da un punto di vista antropologico, siamo all’interno di una categoria semioticamente basilare (anche se oggi ci sembra per diversi aspetti necessario di oltrepassarla5), che si articola sui due poli natura e cultura, in cui il coltivare è proprio agire sul primo termine dell’opposizione per arrivare al secondo6.

Se da un punto di vista astratto “coltivare” (che deriva non a caso dalla stessa radice linguistica di “cultura”) sarebbe proprio sottomettere la “natura” a un ordine umano, nello specifico lavorare la terra, piantare piante, seminare e raccogliere e tutte le altre attività che compie il coltivatore, sono tutte azioni che non portano a sostituire la natura tout court con un elemento totalmente antropizzato : ciò significa soltanto che essa viene incanalata, piegata, sottomessa alle necessità economiche, estetiche o esistenziali dell’uomo. In altre parole, se proviamo ad articolare la riflessione su questa categoria semiotica potremmo posizionare sui due termini contrari da una parte la Natura selvaggia, mai stata a contatto con l’uomo, le foreste vergini, le profondità abissali degli oceani, le lande desolate dei ghiacciai o dei deserti, mentre sul polo della Cultura, avremmo le città e tutte le infrastrutture create dall’uomo, strade, porti, aeroporti ecc. Anche se nella nostra epoca sono sempre più rari i luoghi mai toccati dall’antropizzazione, e, al contrario, anche nei luoghi più decisamente modificati dall’uomo è difficile non trovare più tracce della natura — se non altro per il fatto che anche le megalopoli più mastodontiche devono comunque fare i conti con le caratteristiche geologiche, orografiche, fluviali su cui sono costruite —, possiamo per i nostri scopi estremizzare questi due poli antitetici.

4 Definiamo “giardino” un terreno, privato o pubblico, per lo più recintato, coltivato a piante ornamentali e/o fiori, destinato a ricreazione e passeggio, mentre l’“orto” è un piccolo appezzamento di terreno, solitamente adiacente a un’abitazione, in cui si coltivano ortaggi o trovano spazio alberi da frutto : entrambi possono essere l’oggetto delle cure del giardiniere dilettante. Appannaggio degli agricoltori professionisti, in quanto destinati alla produzione in larga scala, sono invece i campi coltivati (es. a cereali) e i frutteti intensivi.

5 Cfr. tra molti altri, Ph. Descola, Par-delà nature et culture, Paris, Gallimard, 2005 ; G. Ferraro et al. (a cura di), Dire la natura. Ambiente e significazione, Roma, Aracne, 2015 ; G. Marrone, Addio alla natura, Torino, Einaudi, 2011 ; id. (a cura di), Semiotica della natura, Roma, Meltemi, 2012.

6 Si può ovviamente paragonare questa operazione con quella del cuoco descritta da Greimas come passaggio della materia prima naturale al piatto visto come oggetto culturale. Cfr. A.J. Greimas, “La zuppa al pesto o la costruzione di un oggetto di valore”, in Del senso 2, Milano, Bompiani, 1984, pp. 151-163.

Ma l’essenziale si gioca, in modi più sfumati, tra i termini subcontrari. Il lavoro del coltivatore infatti si colloca a un livello che non è né quello di una Natura incontaminata alla quale per definizione non ha accesso, né a quello di una Cultura totalizzante in cui non vi sarà più spazio per alcun oggetto naturale7. Invece, il suo agire interviene al livello in cui questi due poli si contaminano e ibridano, quello dei termini subcontrari della categoria. Al primo di questi poli (Non Cultura) appartengono quegli spazi naturali non sottoposti a un ordine culturale asfissiante, ma comunque utilizzati dall’uomo per i suoi scopi : ci riferiamo ai campi coltivati, ai frutteti, i vigneti, gli oliveti, finanche i boschi da cui si ottengono frutti (le castagne o i funghi) o altre materie utili (come il legname o il caucciù o il sughero). Sono spazi in cui l’uomo agisce, trasforma, indirizza gli elementi naturali, ma che non per questo diventano totalmente culturalizzati : al centro di essi vi è comunque l’elemento naturale, quello più importante perché è alla buona riuscita della coltivazione che si subordina tutto il resto.

7 Su questo tema, trattato con una sottile ironia, cf. Paulius Jevsejevas, “Loving Nature”, Actes Sémiotiques, 123, 2020.

Al polo subcontrario opposto, quello della Non Natura, si situano invece gli spazi che, pur ponendo il dato naturale come elemento fondamentale, in realtà finiscono per sorpassarlo o trasformarlo in elemento antropizzato, mettendolo al servizio di una valenza “culturale” — nel senso di ordinato e piegato alla necessità umana : ci riferiamo ai giardini o ai parchi delle città o delle abitazioni (case, ville o castelli che siano). In essi la “natura” viene orientata alle esigenze umane, trasformata in elemento di arredo, di ordine, di decoro (anche quando nella progettazione dei giardini si vuole ricreare l’imprevedibilità della natura selvaggia : è solo l’effetto di senso di un’operazione culturale).

Articolando ulteriormente i due termini subcontrari di questa categoria (Non Cultura – Non Natura), possiamo trovare un termine neutro (etichettabile provvisoriamente come “incolto”) che ci può servire per includere altri spazi ibridi, in cui la presenza dell’uomo e della natura si incontra o si scontra, dando luogo a forme inedite. Ci riferiamo a quelli che vengono definiti “terrain vagues”8 (spazi urbani liminari, indefiniti e incerti, che la natura si “riprende”) oppure brownfields (luoghi altamente antropizzati e inquinati, ma non più utilizzati — ferrovie o fabbriche dismesse ad esempio — che l’uomo decide di rigenerare grazie anche all’inserimento di componenti naturali) : in essi la dialettica tra attività dell’uomo e resistenza o reattività della natura si esplica in molteplici modi che meriterebbero di essere analizzati autonomamente.

8 L’architetto e urbanista catalano Ignasi de Solà-Morales definisce i terrain vagues “luoghi esterni, strani luoghi esclusi dagli effettivi circuiti produttivi della città. Da un punto di vista economico, aree industriali, stazioni ferroviarie, porti, vicinanze dei quartieri residenziali pericolose, siti contaminati (...) aree dove possiamo dire che la città non esiste più”. Quaderns d’arquitectura i urbanisme, 212, 1996, pp. 38-39.

Nel campo coltivato o nel frutteto l’opera dell’uomo è, in un certo modo, “al servizio” della pianta, quasi come in una relazione di scambio in cui, mentre la pianta “deve” produrre il più possibile, in compenso tutto viene studiato e organizzato per “aiutarla”, dandole ciò che le consente di vivere e prosperare. Orientamento al sole, vicinanza a fonti di irrigazione, spazi su cui poter muovere le macchine da lavoro, disposizione delle piante, addirittura trasformazione del terreno in funzione dell’accessibilità : tutto deve essere funzionale all’ottenimento del migliore risultato. Nel giardino al contrario è la pianta ad essere al servizio del disegno architettonico, del piano umano che permetta di ottenere da essa la massima soddisfazione estetica e/o esistenziale.

Legata a questa categorizzazione degli spazi su cui il coltivatore interviene, vi è la distinzione di ruolo sociale da lui incarnato : egli può essere un professionista o un dilettante, a seconda che sia retribuito o meno. Il professionista a sua volta può essere retribuito in denaro oppure può ricevere il suo compenso attraverso la vendita o lo sfruttamento di quanto ha coltivato (fiori, frutti, ortaggi ecc.). Il dilettante è invece chi si dedica alla coltivazione per un proprio piacere personale, ma ciò non esclude che vi possa essere un’intersezione con il professionista in quanto anche un dilettante può coltivare per raccogliere fiori o frutti. In questo caso ad essere implicata è una categoria articolata sull’opposizione “utilitario vs esistenziale”, per la quale recuperiamo la ben nota riflessione di Floch a proposito della valorizzazione degli oggetti in pubblicità9.

9 J.-M. Floch, Semiotica, marketing e comunicazione. Dietro i segni, le strategie, Milano, Franco Angeli, 1992.

Esisteranno quindi, (i), coltivatori che operano in base a valori utilitari (chi cerca di rendere gli spazi coltivati più produttivi in senso proprio, cioè in grado di produrre fiori o frutti o ortaggi, oppure di ottenere che siano rispondenti a quanto l’architetto paesaggista ha disegnato) : la chiamiamo valorizzazione pratica. Poi vi sono, (ii), coltivatori che agiscono sulla base di valori puramente esistenziali, quali il piacere stesso del coltivare, dello stare all’aria aperta : il loro è un agire che non si basa sull’ottenimento di un risultato sostanziale, quanto di una pura soddisfazione personale (un modello letterario e poi cinematografico, estremizzato di questa attitudine è rappresentato da Chance, il giardiniere del romanzo Being There – Presenza10, che vive il giardinaggio in modo assoluto, non curandosi del sé ma immergendosi completamente nel giardino) ; in questo caso parliamo di una valorizzazione utopica.

10 J. Kosinski, Being There, San Diego, Harcourt, 1970. Il romanzo è stato portato sullo schermo con successo nel 1980 da Hal Ashby con l’interpretazione magistrale di Peter Sellers.

A complessificare questa opposizione, ci sono poi i termini subcontrari : (iii) il coltivatore che agisce negando i valori esistenziali, quindi vedendo nella pratica della coltivazione solo un ritorno economico/pratico (ad es. ricavando fiori o frutti o ortaggi da vendere oppure svolgendo il proprio lavoro sul giardino in cambio di uno stipendio) : siamo nel caso di una valorizzazione critica. Opera invece negando i valori utilitari, (iv), il coltivatore che agisce con una finalità non puramente esistenziale, ma per ottenere dal giardino o dall’orto un risultato di tipo estetico, come chi si impegna per avere il giardino più bello del quartiere o per produrre i fiori o i frutti più apprezzati dai vicini, o anche per affermare uno status sociale che lo distingua da chi non ha il giardino o non sa curarlo con gli stessi risultati. Siamo nel caso della valorizzazione ludico-estetica.


1.2. Orti, giardini e altri terreni

Dalle riflessioni fin qui svolte possiamo procedere per interdefinire i luoghi in cui si esercita il fare del “coltivatore” partendo dalle funzioni cui sono destinati grazie all’opera del coltivatore.

In primis, una distinzione tra una funzione produttiva (di frutta o verdura o sementi) vs una funzione estetica / sociale / ricreativa (come i giardini delle città che sono stati ideati per garantire riposo e svago agli abitanti). In particolare, all’interno di questa seconda area di funzioni rientra un altro tipo di produzione immateriale : ci riferiamo al fatto che il giardino urbano o quelli appartenenti a palazzi o castelli nobiliari, siano stati da sempre fonte di ispirazione di opere poetiche o pittoriche, spazi quindi di creazione e non solo di ricreazione.

 

Al di fuori di queste due finalità (produttiva e sociale/ricreativa) sembrerebbero restare solo gli spazi naturali non coltivati ; ma in realtà anche su questi ultimi è spesso possibile ravvisare la mano dell’uomo come accade nei boschi che pur non essendo propriamente sottoposti a coltivazione sono comunque oggetto di attività umana, sia per ricavare la legna, sia per garantire un controllo del loro sviluppo in modo, ad esempio, da prevenire incendi o altre calamità naturali (frane, inondazioni). Da questo punto di vista è interessante ricordare come tra le attività di controllo della vegetazione vi possano essere pratiche non direttamente riconducibili alla coltivazione, come accade nel bush, l’immensa boscaglia che ricopre ampie zone del continente australiano : la popolazione aborigena, per evitare il rischio di incendi devastanti e incontrollati dà alle fiamme porzioni limitate di territorio seguendo una tradizione ancestrale.

Un’altra caratteristica comune ai luoghi coltivati è data dalla loro spazialità: come detto in precedenza, qui non ci interessa analizzarla dal punto di vista della percorribilità o dei punti di vista del progettista o del visitatore, ma in quanto precondizione dell’azione del coltivatore. Coltivare un giardino o un orto significa prima di tutto ritagliare dallo spazio circostante una porzione.

A seconda del tipo di valorizzazione che il giardiniere mette in opera, si avranno diversi tipi di uso dello spazio che possiamo articolare su un continuum che va da un intervento massimo a un intervento minimo. I coltivatori che si situano al polo “culturalizzante” cercheranno di adattare lo spazio per ottenere il massimo possibile dalle piante o in termini produttivi o in termini economici.

Al polo opposto possiamo vedere all’opera i coltivatori “utopici” o “ludico- -estetici”, che invece interverranno nello spazio a seconda delle loro inclinazioni estetiche ed esistenziali. Seguendo la riflessione di un filosofo-giardiniere come Gilles Clément, se “il giardino è sempre il risultato dell’azione combinata dell’uomo e della natura”, l’energia che il primo opera sulla seconda “dev’essere collocata al posto giusto perché l’insieme dovuto al genio naturale divenga finalmente giardino”11. L’eccellenza del giardiniere, almeno di quello del futuro — che nella descrizione di Clément richiama le figure dei coltivatori “utopici” e “ludico/estetici” — “capace di conservare e sviluppare la vita nel suo giardino”12, si espliciterebbe proprio nel riuscire a trovare il giusto limite tra il proprio agire e il “genio naturale”, compito ben più difficile da portare a termine rispetto a “intervenire con violenza sull’insieme vivente al fine di far emergere unicamente il gesto finale dell’architettura”13. Questa riflessione ci permette di rileggere il tema della spazialità nel giardino dal punto di vista dell’azione creatrice del coltivatore tramite la categoria semiotica dell’aspettualizzazione : vorremmo sostituire il termine usato genericamente da Clément “limite” con quello più specifico di “soglia”. Come ricorda Fabbri, “mentre il limite è una demarcazione terminativa, la soglia è suscettibile di segmentazioni durative diverse. Ed è inoltre possibile trasformare una soglia in limite — un terminativo in uno stato — e il limite nell’incoativo di una soglia”14. A guidare il lavoro del giardiniere — in antitesi a quello che fa l’agricoltore —, dovrebbe essere quindi la capacità di contrassegnare lo spazio naturale, non costruendo “limiti terminativi”, cioè imponendo alla spazialità naturale una umana, bensì introducendo “soglie durative”, in modo che il proprio intervento si accordi con la l’ambiente naturale : “uno zoccolo, una demarcazione, un dislivello, un limite — anche fitto come la bordura di un bosco — la cui forma si accordi sia al senso del progetto che si è proposto sia al rispetto della vita”15.

11 G. Clément, Giardini, paesaggi e genio naturale, Macerata, Quodlibet, 2013, p. 43.

12 Ibid.

13 Op. cit., p. 45.





14 P. Fabbri, “Supplemento a Claude Zilberberg”, Actes Sémiotiques, 123,2020, p. 1 https://www.unilim.fr/actes-semiotiques/6472.

15 Ibid.

L’attività del coltivare risente quindi del tipo di spazio su cui si applica e della scelta di ottenere un risultato “naturalizzante” come accade per il giardino alla cinese o all’inglese, o al contrario un risultato “culturalizzante” come accade per quello francese o ancora di più per quello all’italiana. Si tratta infatti di ottenere dall’attività colturale — e quindi comunque da un intervento trasformativo dell’ambiente naturale — diversi effetti di senso, uno che vuole ricostruire la naturalità puntando su caratteri come il disordine, la “dégéométrisation”, l’altro al contrario che vuole trasmettere il senso di un controllo razionale dello spazio naturalistico, attraverso l’uso della geometria, dell’ordine, della simmetria16.

16 Su questo argomento, cfr. C. Zilberberg, art. cit. p. 4.

2. La pratica del giardiniere : una pluralità di forme dell’interagire

L’agire del giardiniere si definisce sempre in rapporto ad un’entità sincretica — chiamata “giardino” — costituita da molti elementi : le piante (a loro volta divise in alberi, fiori, arbusti, prato, frutti, ortaggi ecc.), il terreno su cui crescono, le caratteristiche orografiche, climatiche in cui viene realizzato, gli elementi architettonici come sentieri, costruzioni, fontane, muri, scalinate ecc. con cui le piante sono in relazione. A rendere possibile l’azione del giardiniere esistono poi gli attrezzi, ognuno dei quali serve a uno scopo specifico ; tra le competenze del giardiniere c’è anche la scelta dell’attrezzo giusto per ogni attività. Ma, ovviamente, l’agire del Soggetto-giardiniere si esercita principalmente (sia direttamente che indirettamente) sull’Oggetto-pianta”. Tuttavia, la peculiarità essenziale di quell’“oggetto”, rispetto ad altri oggetti che qualifichiamo usualmente di “inanimati” su cui si esercita la nostra azione trasformativa, è quella di essere un organismo vivente, caratterizzato da un ciclo vitale (nascita, crescita, morte), dalla sua interazione costante con altri esseri viventi (dagli agenti patogeni che la possono infettare agli animali che se ne nutrono o le usano per altri scopi, fino all’uomo che le ha sfruttate, adattate ai climi e agli habitat più diversi, manipolate attraverso incroci o interventi sul materiale genetico). Quindi è un Oggetto dallo statuto particolare che rende l’interazione con l’uomo una relazione quasi intersoggettiva : dal punto di vista delle competenze, anche se le piante non hanno un “sapere” nel senso di una capacità cognitiva e riflessiva, e nemmeno una volontà nel senso di intenzione cosciente, hanno senza dubbio certi orientamenti, allo stesso modo che tutti gli esseri viventi17.

17 Tra i molti testi scientifici che affrontano questo tema : S. Mancuso e A. Viola, Verde brillante, Firenze, Giunti, 2013 ; U. Castiello, La mente delle piante. Introduzione alla psicologia vegetale, Bologna, Il Mulino, 2019.

Occorre anche riconoscere ad esse, in modi diversi, un “potere” e un “dovere”: in funzione dalla loro natura non possono non (o “devono”) evolversi secondo traiettorie trasformative geneticamente determinate. Ma “possono”, di più, in funzione dall’interazione con l’ambiente (fisico, animale, umano) diventare altro da quanto previsto dai loro geni. Pensiamo a un albero da frutto che attraverso abili interventi di potatura e adeguate concimazioni arriva a produrre un più elevato quantitativo di frutti e di migliore qualità rispetto a quanto avrebbe fatto in altri condizioni, e in particolare senza quegli aiuti artificiali, ossia “naturalmente” : si tratta di un “dover essere” della pianta che viene modificato e attiva un “poter essere” indotto dalle cure dell’operatore umano che ad essa si dedica, ma la cui riuscita non è deterministicamente prevedibile. A renderlo possibile è l’intervento del Soggetto che agisce mettendo in campo un ventaglio di competenze : un “voler fare” (ottenere più frutti) che appoggiandosi a un “saper fare” (tecniche colturali) rende possibile l’attualizzazione di un percorso alternativo di sviluppo della pianta, piegata ai desideri dell’uomo.

L’attività di “coltivare”, sia quella del giardiniere che, a più larga scala, del coltivatore in generale, rileva quindi di una dinamica complessa nel senso che mette in gioco interazioni di ordine diversi. Il ricorso al modello interazionale elaborato da Eric Landowski, che prenderemo qui come “grille de lecture”, ci aiuterà a riconoscerle18.

18 Les interactions risquées, Limoges, Pulim, 2005. Trad. it., Rischiare nelle interazioni, Milano, Franco Angeli, 2010.


2.1. L’operare e i suoi limiti

Cominciamo dalle attività più basiche di un giardiniere. Quando egli semina o pianta, facendo essere nuove realtà, oppure quando pota o concima, modificando quindi lo stato di certi oggetti, il suo fare rientra nell’“operare”, nozione definita nel suo principio elementare come un’“agire dall’esterno (generalmente esercitando una forza) sulla localizzazione, la forma, la composizione o lo stato di un oggetto”19. In questo modo, il soggetto “fa essere” un’altra realtà, e lo fa attraverso l’applicazione di una serie di istruzioni d’uso codificate, approfittando delle regolarità di comportamento della materia prima, in questo caso delle diverse piante su cui interviene. La Programmazione è appunto il regime inter- azionale fondato su questi principi. Interagiamo nel suo quadro ogni volta che

19 Rischiare..., op. cit., p. 18.

agiamo direttamente sul mondo materiale, per esempio spostando cose, assemblandole o separandone le parti, realizzando cioè congiunzioni o disgiunzioni col risultato di far essere nuove realtà (costruire o distruggere una casa, una città, un paese) o di modificare gli stati di certi oggetti esistenti (accendere o spegnere una lampada, congelare o scongelare del cibo). (Op. cit., p. 18).

Ma le piante non sono materia inorganica completamente determinata dalla loro composizione fisico-chimica, e neppure macchine strettamente sottomesse ai loro programmi. La trasformazione di un oggetto inanimato (un pezzo di legno morto, un blocco di marmo), se affrontato sulla base di un algoritmo di azione corretto, ad esempio basato sulla conoscenza dei punti migliori sui quali intervenire per ottenere un determinato taglio e degli attrezzi che meglio si adattano alle varie operazioni, porta a un risultato univocamente determinato : se si svolge un certo programma di azione correttamente, si ottiene “necessariamente” un certo risultato, proprio perché l’oggetto non può che subire questo programma. Non è il caso delle piante. L’ipotesi interpretativa che vorremmo avanzare è che il giardiniere riconosca nell’“oggetto” su cui si trova ad agire una sorta di competenza modale — quasi quella di un altro soggetto —, che deriva dal riconoscere nella pianta la natura di essere vivente, certo “programmato” dalla sua struttura genetica e, quindi, anche “programmabile” attraverso operazioni trasformative, ma che offre una sorta di resistenza a queste stesse operazioni.


2.2. Una sintassi dello scambio

Ci troviamo infatti di fronte ad un oggetto che non è inanimato, ma è dotato di una serie di programmi di sviluppo che non sono interamente prevedibili, così che la programmazione può rivelarsi una modalità di azione che non ottiene i risultati previsti. L’agire del giardiniere deve tenere conto della natura peculiare della pianta che oppone al programma dell’operatore una sua autonomia, un “potere” proprio. Per ottenere il suo obiettivo, il Soggetto deve allora riconoscere nella pianta la presenza di questa modalizzazione, cioè una dimensione parzialmente soggettiva, ricordando con Landowski, che

lo statuto attanziale di un attore qualunque, ovvero il tipo di competenza che gli verrà riconosciuta, non è dato sul piano ontologico ma dipende da una costruzione effettuata dall’osservatore (...). Gli elementi del mondo naturale, ciò che noi chiamiamo le “cose”, sono a dire il vero ciò che sono per noi, ovvero delle entità prive di motivazione e di ragione, solo in funzione dello sguardo oggettivante — reificante — che proiettiamo abitualmente su di esse. (Op. cit., p. 30).

Il giardiniere esperto sa che non può considerare la pianta che si trova a coltivare come un oggetto interamente programmabile, ma deve agire tenendo presente che “il fare dell’altro attore (…) non è racchiuso nei limiti di un ruolo tematico ma dipende dalle reazioni aperte di una ‘competenza’”20. Ora, in un modello di interazione tra soggetti umani, ad essere al centro della manipolazione è il “volere” : “manipolare” l’altro è fargli “voler fare”. Ma questa modalità non va presa alla lettera, come se il “volere” fosse una disposizione ontologicamente riducibile a un’unica determinazione, ossia quella di un’intenzione cosciente di sé stessa, cosa che renderebbe ovviamente difficile se non impossibile utilizzarla per una pianta.

20 Op. cit., p. 45.

E tuttavia, come tutti gli esseri viventi, alle piante si può senza dubbio riconoscere una forma di “intenzionalità” : come minimo quella di continuare a vivere e a riprodursi. Questo costituisce per noi l’equivalente sintattico di una “forza di volontà” nelle piante. Ed è con questa particolare forma di volontà, questa “propensione”, direbbe forse l’antropologo François Jullien, che il giardiniere può giocare21. Ritroviamo qui l’idea di una forma di scambio tra giardiniere e pianta, cioè di “manipolazione” reciproca. Di fatto, solo nella misura in cui il primo darà alla pianta ciò di cui essa ha bisogno, la seconda offrirà al primo ciò che lui si attende. L’interazione funziona quindi come una dinamica di scambi reciproci. Non ci sono, evidentemente, due soggetti che sarebbero entrambi in grado di calcolare il valore dei rispettivi servizi. Neppure, ovviamente, viene stabilito alcun contratto in senso stretto, ma ciò non impedisce che il “fare” del giardiniere sia sistematicamente sanzionato dalla pianta. Se egli fornisce alla pianta ciò che essa (gli) “domanda” (nutrimento, aerazione, luce, acqua ecc.), lei stessa lo ricompenserà con la promessa dei suoi fiori e dei suoi frutti. Ma se invece il giardiniere non rispetta il proprio “dover fare” — la sua missione, la sua responsabilità, il suo impegno — di fronte alla pianta, questa non mancherà di sanzionarlo negativamente. La pianta è in qualche misura il destinatore / mandante del fare del giardiniere e allo stesso tempo la sua istanza giudicante.

In un senso più generale, non è necessario che ci siano due soggetti coscienti di sé perché vi sia tra due entità una forma sintattica di interazione che rileva della sintassi detta di “manipolazione”. Basta, per questo, la possibilità di riconoscere la forma oggettiva di una relazione di scambio. In questo senso, forme di produzione come l’agricoltura nel suo insieme, e anche l’allevamento rappresentano forme di produzione di ricchezza basate sul mantenimento di un equilibrio quasi contrattuale tra prestazioni oggettive, senza la necessità di nessun “accordo di volontà” formale. In altri termini, si potrebbe dire che abbiamo qui a che fare con delle manipolazioni senza soggetti22.

21 La nozione di propensione viene elaborata da François Jullien per spiegare una delle caratteristiche dominanti della cultura cinese, in opposizione all’impronta puramente casuale e teleologica propria del pensiero occidentale : “Essa allude a un dispiegamento che non è determinato da alcuna perdita né è segnato da alcuna vocazione (…) tant’è vero che è orientato solo dal modo in cui la situazione è inclina a “pendere”, dal mondo in cui ne induce il prolungamento e ne produce il rinnovamento”. F. Jullien, Essere o vivere : Il pensiero occidentale e il pensiero cinese in venti contrasti, Milano, Feltrinelli, 2016, p. 21.






22 Ringraziamo qui Eric Landowski per le sue indicazioni.


2.3. Sentire l’altro

Ma il fatto che l’interazione non sia legata a un’autocoscienza ci apre, oltre la manipolazione, la strada per definire un altro — un terzo — regime interazionale all’opera nel rapporto tra il giardiniere e l’Oggetto delle sue cure : quello dell’aggiustamento. Quel regime, scrive Landowski, “non consiste né nell’adattarsi unilateralmente a un altro attore né, al contrario, nel portare l’altro a piegarsi al proprio volere”23.

23 Rischiare, op. cit., p. 40.

Nel caso che stiamo trattando, abbiamo appena visto come si possa riconoscere alla pianta uno statuto particolare di oggetto che non può essere sottoposto a un puro regime di programmazione, in quanto l’esecuzione di un certo tipo di operazioni non porta necessariamente e sempre allo stesso risultato. Infatti,

nelle interazioni che rilevano dell’aggiustamento, l’attore con il quale si interagisce si caratterizza certo, fra l’altro, per il fatto che il suo comportamento obbedisce a una dinamica propria. Ma questa dinamica (...) non è riducibile (...) a delle leggi prestabilite e oggettivabili. (Op. cit., p. 47 )

La pianta nella sua natura di essere vivo non risponde in maniera totalmente prevedibile alle operazioni programmatrici che vengono compiute dal Soggetto ;
quest’ultimo invece, per agire in modo efficace, deve cercare di assecondarne i ritmi e le direzioni di crescita, nutrendola o potandola, cioè cercare di “aggiustarsi” alla pianta, seguendo certo delle prescrizioni dettate dall’esperienza e dalle conoscenze scientifiche, agronomiche o chimiche, ma sempre restando in “ascolto”, osservando le reazioni alle proprie operazioni. Se a dominare la forma programmatica dell’interazione è il principio della regolarità e invece l’intenzionalità è base di ogni manipolazione strategica, alla base di ogni inter- azione in forma di aggiustamento vi è la sensibilità24. L’accezione con cui usiamo il termine sensibilità è quella che Landowski definisce “reattiva” (in opposizione a quella “percettiva” che riguarda il modo in cui un soggetto prova le sensazioni a contatto con il mondo esterno) : “sotto forma di questa sensibilità reattiva, la competenza estesica può essere accordata all’insieme del regno animale (…), ma anche al regno vegetale (…) e a una gran parte degli oggetti detti inanimati”25.

24 Rischiare, op. cit., p. 60.




25 Ibid., p. 46.

Aggiustarsi ad una pianta, significa allora mettere in opera una sensibilità che si riconosce presente anche in essa : potare una rosa è operare in modo sensibile attraverso l’osservazione attenta della struttura complessiva dell’arbusto, discriminando i rami più recenti da quelli più vecchi, in modo da rinforzare e rendere più produttiva la pianta, adeguandola allo spazio in cui è inserita, portandola a crescere su un muro o su un graticcio, o ad adattarsi alle piante che le sono vicine. Per farlo il giardiniere deve continuamente avvicinarsi e allontanarsi : da vicino per osservare i rami e tagliarli al punto giusto, rispettando gemme e nodi, da lontano per valutare in che modo ogni azione compiuta agisca sull’intero organismo. L’essenziale è quindi, ancora una volta, la capacità di percepire, di sentire, la “propensione” dell’altro. Qualsiasi “aggiustamento” è precisamente basato su quella forma di intelligibilità del sensibile nella sua dinamica viva.

Questo continuo cambiamento di punto di vista può essere proficuamente analizzato attraverso la categoria dell’aspettualizzazione che oscillerebbe tra una totalità e una parzialità della “lettura” della pianta, ognuna di esse propedeutica all’azione pragmatica del giardiniere (da lontano coglie un’enunciazione complessiva dell’albero, da vicino ne coglie l’articolazione puntuale, in un continuo passaggio da un livello all’altro che modifica sostanzialmente il piano percettivo). Possiamo dire che un tale tipo di coordinazione — una specie di dialogo tra uomo e pianta — favorisce la mutua esecuzione e svolgimento (“l’accomplissement”) di un processo evolutivo, ossia la creazione di un essere nuovo, al di là di quello che il manuale di botanica consente di sperare. È come se entrambi, la pianta e il giardiniere, si superassero reciprocamente grazie alla loro coordinazione in atto. L’attenzione del giardiniere consente allora alla pianta di realizzare più del suo programma geneticamente predeterminato, per attingere a un potenziale fino ad allora non attualizzato.


2.4. Niente è mai garantito

Tuttavia, la relativa imprevedibilità del “fare” di ogni pianta lascia lo spazio a un ulteriore regime di interazione tra essa e il giardiniere : quello dell’incidente. Meglio di chiunque, un giardiniere conosce la possibilità che l’interazione porti a risultati inaspettati a causa dell’irruzione di un elemento esterno a qualsiasi controllo il Soggetto possa mettere in atto. L’incidente può portare tanto a esiti negativi o catastrofici (nel caso del giardino pensiamo a eventi atmosferici estremi, incendi o invasioni di parassiti) quanto a sorprese gradevoli (come quando spunta un fiore che non si era seminato o una pianta che sembrava morta inaspettatamente rinasce) ; l’incidente può anche essere il frutto inatteso di un’azione del giardiniere che credendo di ottenere un risultato di un certo tipo invece, per il subentrare di altri fattori, dà luogo a un risultato del tutto imprevedibile, positivo o negativo che sia. Anche se può ignorare il suo nome, la “serendipità” è l’amica imprescindibile del giardiniere. Se il regime della programmazione era retto dalla regolarità, quello della manipolazione dall’intenzionalità, quello dell’aggiustamento dalla sensibilità, “l’alea costituisce il principio fondatore di un regime di senso e di interazione autonomo da porre sullo stesso piano degli altri tre”26. Come ogni vero giardiniere sa perfettamente, l’incidente fa parte integrante delle condizioni del mestiere. Non si può coltivare senza accettarne l’eventualità. Per questo, il regime detto dell’incidente é allo stesso tempo, potenzialmente, quello dell’assenso all’imprevedibile27.

26 Rischiare, op. cit., p. 75.


27 Cfr. Rischiare, op. cit., p. 77, n. 5.

Infatti, a ben vedere, tra questo regime e quello dell’aggiustamento, i confini sono molto sfumati, in quanto ogni volta che il giardiniere opera, dovendo confrontarsi con un oggetto che risponde a proprie logiche di sviluppo non del tutto conoscibili e padroneggiabili da lui, accetta un margine considerevole di rischio nella propria azione. L’alea può apparire nella pratica del giardinaggio in due modi : i) come componente inevitabile e accettata a priori dell’azione — pensiamo alla nascita di frutta o verdura dalle forme bizzarre o al caotico sviluppo di piante infestanti nonostante tutte le precauzioni messe in atto ; o, ii) come un fattore del tutto inaspettato, in quanto legato al sopravvenire di elementi esterni imprevedibili, sia in senso negativo come eventi meteorologici o malattie portate da parassiti importati da luoghi lontani, sia in senso positivo, come può essere l’insperato manifestarsi di condizioni climatiche favorevoli o la nascita di un fiore che non si era piantato ma è arrivato attraverso percorsi imperscrutabili a comparire nel giardino.

In entrambi i casi però nel giardinaggio l’alea è uno dei principi fondamentali dell’agire. Anzi si potrebbe affermare che il giardinaggio rappresenta il modo in cui l’uomo cerca di ridurre l’impatto dell’alea negli spazi coltivati, scegliendo le piante più adatte, piegandole alle proprie necessità invece di lasciarle in balia del caso con cui la natura le porterebbe a svilupparsi. A fianco di questi due modi in cui l’incidente appare come qualcosa che dall’esterno arriva a rendere più o meno inutili le cure e le attenzioni di un giardiniere comunque attivo, quest’ultimo può porsi di fronte all’alea con un altro atteggiamento, lasciando, por così dire, che “il destino” si compia : attitudine di accettazione (fiduciosa o meno) dell’inevitabile (e imprevedibile).

Siamo vicini a un atteggiamento mistico, di fusione con “la natura”, che non appartiene al regime dell’aggiustamento, in quanto vi è la rinuncia alla componente attiva insita in esso. Un esempio celebre di questo approccio alla coltivazione e più in generale all’ambiente è quello rappresentato dalla vita e dall’opera di Henry David Thoreau che nel suo Walden. Vita nei boschi afferma :
“Il vero contadino smetterà di angustiarsi, come gli scoiattoli, che non manifestano preoccupazione alcuna se i boschi daranno castagne o no, quest’anno ; egli finirà il suo lavoro ogni giorno, rinunciando a ogni pretesa sul prodotto dei suoi campi”28. Il lavoro nei campi è quindi portato avanti parallelamente allo svilupparsi e al fruttificare delle piante, in un regime di assenso di quanto esse produrranno.

28 H.D. Thoreau, Walden. Vita nei boschi, Milano, Rizzoli, 1988, p. 165.


2.5. Agronomi e agrofili

Dopo queste osservazioni riguardanti i regimi di interazione tra giardiniere e pianta possiamo rileggere lo schema presentato in precedenza, riguardante i modi in cui il soggetto umano valorizza il proprio intervento sul mondo vegetale. Avevamo individuato quattro polarità (pratica, critica, utopica e ludico / estetica) che ora possiamo rileggere alla luce delle quattro modalità di interazione appena descritte. Ci sembra possibile operare una sintesi tra le quattro tipologie di coltivatori, raggruppando a due a due i termini : agronomi e agrofili29.

29 Devo questo prezioso spunto di ricerca a Eric Landowski.

Da un lato avremmo quindi i coltivatori “pratici” e quelli “critici” che possiamo sussumere sotto la categoria degli “agronomi”. Ad unirli un’attitudine allo sfruttamento “materiale” della natura, che diventa mezzo di produzione e di guadagno economico, per ottenere il quale si utilizzano tecniche ben precise e regolamentate. Dal punto di vista dei regimi di interazione a caratterizzare il loro rapporto con la pianta saranno la programmazione e la manipolazione. Come abbiamo visto, in questi due regimi il soggetto considera le piante nulla più che “oggetti” che sottostanno a regolarità (botaniche) il cui sviluppo richiede solo un ambiente adeguato (proprietà chimiche del suolo, umidità, temperatura, aerazione, ecc.). La loro azione si basa sulla conoscenza delle leggi dell’agronomia, della botanica, della chimica e, negli ultimi anni, anche della genetica, applicando rigorosamente le quali il risultato produttivo ed economico è garantito.

I coltivatori che abbiamo invece definito “utopici” e quelli “ludico-estetici” possono essere raggruppati sotto la definizione di “agrofili” : essi sono alla ricerca di un contatto “esistenziale” o “estetico” con la natura, da cui non cercano di ricavare prodotti e vantaggi economici, affidandosi a un’interazione con essa basata sui regimi dell’aggiustamento e dell’alea. Gli “agrofili” senza necessariamente ignorare le “leggi” rispettate dagli “agronomi”, considerano la pianta come un essere vivente a tutti gli effetti, dotato di un potenziale di sviluppo che rimane parzialmente aperto (cioè che probabilmente darà più del suo “programma”), ma che si realizzerà solo andando oltre la semplice applicazione dei principi di regolarità. Questa attitudine si manifesta attraverso una forma sensibile di relazione con la pianta, che avviene o grazie all’attualizzazione delle sue potenzialità tipica del regime dell’aggiustamento, oppure nel semplice atteggiamento serendipico del coltivatore che si affida all’alea.

Anche se non è tra gli obiettivi di questo lavoro, sul rapporto tra agronomi e agrofili si innesta il tema della manipolazione genetica delle sementi che vorrebbe imporre alla “propensione” naturale il determinismo causale, in nome di un’efficacia tecnologica. In realtà, in nome di una “programmazione” della semente, trasformata in modo da dare con maggiore efficienza un frutto sempre uguale e spesso anche sterile (per spingere al riacquisto della semente stessa modificata), si accetta di introdurre un’“alea”, il rischio che questa trasformazione genetica possa dare luogo a fenomeni biologici imprevisti e potenzialmente molto dannosi sia per l’ambiente che per l’uomo.

Si può riassumere l’insieme di queste osservazioni schematicamente cosi, adattando alla sfera particolare dell’agricoltura un modello che riguarda la produzione di beni in generale30 :

30 E. Landowski, “Politiques de la sémiotique”, Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio, 13, 2, 2019, p. 15.

Regimi di produzione agricola

3. Temporalità e giardinaggio : dall’attesa alla sorpresa

Abbiamo visto come l’interazione tra uomo e pianta si svolge all’interno di uno spazio che viene risemantizzato dalla loro relazione ; l’altro asse su cui si svolge l’interazione, altrettanto importante da analizzare, è quello rappresentato dal fattore “tempo”.

 

La prima cosa che si può osservare a questo proposito — e chiunque abbia mai avuto anche una piccola piantina da balcone da curare potrà facilmente riconoscersi in questa esperienza — è che le piante non retroagiscono immediatamente alle operazioni che vengono compiute sul suo corpo vegetale. Ogni azione il giardiniere compia, o al limite anche ometta di compiere, produce un effetto non immediato, ma verificabile in tempi diversi e spesso anche molto dilatati.

Per affrontare semioticamente questa dimensione possiamo fare di nuovo ricorso alla categoria analitica dell’aspettualità. La relazione tra Soggetto e Oggetto nel caso del giardinaggio si svolge infatti secondo un regime temporale che da una parte è scandito dall’intervento dell’uomo, che rappresenta quindi il punto di origine dell’aspettualizzazione ; ma d’altra parte ogni operazione che parte dall’uomo si deve confrontare ed adattare continuamente al tempo naturale, sia quello esterno — il succedersi delle stagioni con le loro variazioni climatiche e di illuminazione — che quello interno, i ritmi di sviluppo di ciascuna specie vegetale.

Rispetto al tempo esterno, l’azione del giardiniere è caratterizzata da un’aspettualizzazione iterativa : gli interventi sulle piante sono ripetuti ad ogni stagione o comunque ad intervalli regolari (innaffiare, diserbare, potare, concimare ecc.) grazie alla sincronizzazione del proprio agire con quello della natura. Ma sull’iteratività si innesta poi un altro regime aspettuale : se proviamo a considerare la temporalità dal punto di vista della pianta, possiamo ipotizzare che essa si regoli su un regime aspettuale dominato dalla duratività. Come osserva Gilles Clément :

per ragioni connesse alle stagioni, al ritmo dei fluidi nell’organismo delle piante, all’incidenza energetica del sole, all’abbondanza o alla penuria dell’acqua, i vegetali si prendono il loro tempo. Si risolvono allo sviluppo solo quando tutte le circostanze necessarie per lo sviluppo sono presenti” (op. cit., p. 53).

Tuttavia, proprio perché ad essere così importante nell’interazione tra il giardiniere e la pianta è il reciproco “aggiustarsi” dell’uno con l’altro, il primo dovrà saper armonizzare le proprie cure alle variazioni climatiche impreviste che si possono verificare durante le stagioni, oppure all’irrompere dei parassiti o di altre malattie o all’intervento esterno di qualunque altro “incidente” possa capitare in un giardino. Quindi sullo sfondo di un’interagire durativo e/o iterativo che porta a “conoscere” la pianta, a trovare con essa un giusto ritmo di azioni o di pause, si innesta una puntualità, costituita dalle operazioni rese necessarie da improvvisi mutamenti contestuali. Ma, tranne tali interventi puntuali, resi necessari dall’irruzione di qualche incidente, il regime aspettuale dominante è quello dell’iteratività e della duratività, l’unico che permette al giardiniere di “conoscere” bene la sua pianta, di trovare con essa un adeguato ritmo di azioni e di pause.

Ne deriva che dal punto di vista passionale, l’attività del giardinaggio é essenzialmente dominata dal sentimento dell’attesa. Questa riguarda anzittutto lo sviluppo naturale della pianta. Quando semino un seme o metto a dimora una pianta mi pongo nell’attesa di vederla spuntare dal terreno o produrre i primi fiori o frutti, e poi ancora di osservarne lo sviluppo successivo e di conseguenza di valutare anche quale impatto avranno queste trasformazioni sull’estetica generale del giardino. L’attesa è quindi sentimento comune sia al giardiniere agronomo che a quello agrofilo, in quanto anche chi padroneggia le tecniche più evolute di coltivazione non può modificare i tempi di sviluppo delle piante. Al massimo, può sforzarsi di pianificarli e di inserirli all’interno di routine produttive economicamente organizzate. Le coltivazioni intensive e meccanizzate rappresentano la massima espressione dell’attitudine dell’agronomo, ma anche in questo caso, la decisione su quando far partire il raccolto deriva dall’osservazione del grado di maturazione del prodotto considerato (frutti, cereali, verdure ecc.), che ha ampi margini di variazione anno dopo anno. L’esempio della vendemmia in questo senso è esemplare : prima di dare il via alle operazioni di raccolta dell’uva è necessario aspettare il momento in cui i grappoli hanno raggiunto le caratteristiche migliori per dare origine al vino migliore.

 

Il giardiniere si deve quindi porre in relazione con le piante che sembrano “dominare” il tempo, o meglio vivere in un tempo loro, indifferente al nostro, nonostante tutti gli sforzi possiamo fare per controllarlo. Come ricorda sempre Clément, le piante :

Attendono il momento adatto. Il momento buono. Senza credito né debito di tempo. In nessun preciso istante il tempo costituisce un investimento, un oggetto di speculazione : esso è giusto, o non è affatto. L’esempio più valido, eppure quello sul quale si è meno riflettuto, è il seme: la semente in sonno. Il seme trattiene il tempo. In che misura, non lo sappiamo ; e nemmeno lui, che attende il momento adatto. Trattiene e cancella il tempo. Tra l’istante della sua nascita dal frutto e il momento della sua crescita, non succede niente. Niente, per settimane, mesi, anni. Talvolta secoli. Questo niente cancella il tempo ma conserva la vita. (Op. cit., p. 54).

Il sentimento dell’attesa nasce quindi dalla relazione tra uomo e pianta e mentre quest’ultima porta avanti il suo tempo, l’uomo deve regolarsi su di esso quando agisce su di essa ed essere consapevole del fatto che ogni operazione compiuta necessita di un tempo per poterne verificare i risultati. In questo caso distinguiamo due possibili configurazioni aspettuali. i) L’attesa può riguardare tempi limitati e prevedibili come quelli della crescita di un fiore o di un ortaggio: in questo caso alla duratività si sovrappone una aspettualizzazione terminativa: l’attesa porta a una conclusione, auspicabilmente positiva, come appunto lo sbocciare di un fiore. ii) In altri casi, invece, l’agire del giardiniere si proietta in una duratività “pura” : pensiamo alla progettazione e alla messa in opera di un giardino monumentale in cui il lavoro del giardiniere non ha un punto di arrivo, dopo il quale vengono “raccolti” i frutti (anche estetici) dell’attività, ma questi ultimi proseguono per secoli modificando generazione dopo generazione la configurazione del giardino stesso. In questo caso il gesto iniziale del giardiniere che, ad esempio, pianta una serie di piccoli alberelli a contornare un viale, è proiettato in un futuro che supera la durata della vita umana. Il sentimento dell’attesa, che prevede implicitamente un punto terminale in cui l’evento atteso si verificherà, in questo caso lascia il campo a una protensione verso un futuro non controllabile in termini individuali, provocando perciò un sentimento di speranza. Ad essere centrale in questo caso è il gesto iniziale, lascito ideale per i propri successori, e quindi a dominare è un’aspettualizzazione incoativa.

Ma, oltre le diverse forme dell’imprevedibile che abbiamo evocato, può infine avvenire un altro tipo di incidente, che va ad introdurre una puntualità diversa, e felice, sullo sfondo temporale dilatato e ripetitivo del giardinaggio. Si tratta di una salienza percettiva, puntuale e inaspettata, che dà luogo allo stato d’animo della sorpresa. Essa può essere di carattere “oggettivo”, quando è la pianta a dare origine a qualcosa di inatteso, come lo sbocciare di un fiore o l’apparizione di un frutto che non era atteso oppure che ci stupisce per una particolare configurazione cromatica o iconica. Può essere invece di carattere “soggettivo” : il giardiniere, anche se trascorre tanto tempo nel suo terreno favorito e ne conosce perfettamente ogni pianta, ogni angolo, ogni prospettiva, può trovarsi per un caso fortuito a cambiare il punto di vista e a cogliere nel suo complesso o in una singola pianta delle configurazioni eidetiche o cromatiche inattese, anche solo perché si è trovato a osservarli da una posizione inusuale ovvero in un momento della giornata o dell’anno in cui la luce del sole appare improvvisamente diversa dal solito.

Perché ciò accada, è necessaria come precondizione una disposizione d’animo del soggetto che permetta all’altro (in questo caso alla pianta o al giardino nel suo insieme) di far breccia nelle azioni, nei percorsi o negli sguardi del giardiniere, che altrimenti rischiano di compiersi secondo schemi ripetitivi in grado di desemantizzare il proprio operare. Chi si approccia ad essa con l’obiettivo di programmare o manipolare, vedrà in ogni deviazione dal percorso voluto, in ogni accidentale imperfezione, un problema da risolvere e non un momento irripetibile di cui approfittare31. Solo chi si avvicina al giardino cercando un aggiustamento o abbandonandosi alla propensione “incidentale” di quell’altro vivente che sono le piante, può lasciare spazio all’incantamento estesico.

31 Ci riferiamo ovviamente a A.J. Greimas, De l’Imperfection, Périgueux, Fanlac, 1987.

Lavori citati

Castiello, Umberto, La mente delle piante, Bologna, Il Mulino, 2019.

Clément, Gilles, Giardini, paesaggi e genio naturale, Macerata, Quodlibet, 2013.

Descola, Philippe, Par-delà nature et culture, Paris, Gallimard, 2005.

Dondero, Maria Giulia, “Approcci semiotici alla configurazione del giardino”, E/C, 2005.

Fabbri, Paolo, “Supplemento a Claude Zilberberg”, Actes Sémiotiques, 123, 2020.

Ferraro, Guido (a cura di), Dire la natura. Ambiente e significazione, Roma, Aracne, 2015.

Floch, Jean-Marie, Semiotica, marketing e comunicazione, Milano, FrancoAngeli, 1992.

Greimas, Algirdas J., “La zuppa al pesto o la costruzione di un oggetto di valore”, Del senso 2, Milano, Bompiani, 1984.

De l’Imperfection, Périgueux, Fanlac, 1987.

Jevsejevas, Paulius, “Loving Nature”, Actes Sémiotiques, 123, 2020.

Jullien, François, Essere o vivere : Il pensiero occidentale e il pensiero cinese in venti contrasti, Milano, Feltrinelli, 2016.

Landowski, Eric, Rischiare nelle interazioni (2005), Milano, Franco Angeli, 2010.

— “Politiques de la sémiotique”, Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio, 13, 2, 2019.

Mancuso, Stefano e Alessandra Viola, Verde brillante, Firenze, Giunti, 2013.

Marrone, Gianfranco, Addio alla natura, Torino, Einaudi, 2011.

— (a cura di), Semiotica della natura, Roma, Meltemi, 2012.

Parret, Herman, Le Sublime du Quotidien, Amsterdam, Benjamins, 1988.

Thoreau, Henry D., Walden. Vita nei boschi (1854), Milano, Rizzoli, 1988.

Zilberberg, Claude, “Le jardin comme forme de vie”, < href="http://claudezilberberg.org/portal/wp-content/uploads/2013/10/Le-Jardin-comme-forme-de-vie-copie.pdf" target="_blank">http://claudezilberberg.org/portal/wp-content/uploads/2013/10/Le-Jardin-comme-forme-de-vie-copie.pdf.

 


1 Bertinoro (FC), 10-11 dicembre 2004.

2 M.G. Dondero, “Approcci semiotici alla configurazione del giardino”, E/C, 2005, p. 1.

3 H. Parret, Le Sublime du Quotidien, Amsterdam, Benjamins, 1988 ; C. Zilberberg, “Le jardin comme forme de vie”, http://claudezilberberg.org/portal/wp-content/uploads/2013/10/Le-Jardin-comme-forme-de-vie-copie.pdf.

4 Definiamo “giardino” un terreno, privato o pubblico, per lo più recintato, coltivato a piante ornamentali e/o fiori, destinato a ricreazione e passeggio, mentre l’“orto” è un piccolo appezzamento di terreno, solitamente adiacente a un’abitazione, in cui si coltivano ortaggi o trovano spazio alberi da frutto : entrambi possono essere l’oggetto delle cure del giardiniere dilettante. Appannaggio degli agricoltori professionisti, in quanto destinati alla produzione in larga scala, sono invece i campi coltivati (es. a cereali) e i frutteti intensivi.

5 Cfr. tra molti altri, Ph. Descola, Par-delà nature et culture, Paris, Gallimard, 2005 ; G. Ferraro et al. (a cura di), Dire la natura. Ambiente e significazione, Roma, Aracne, 2015 ; G. Marrone, Addio alla natura, Torino, Einaudi, 2011 ; id. (a cura di), Semiotica della natura, Roma, Meltemi, 2012.

6 Si può ovviamente paragonare questa operazione con quella del cuoco descritta da Greimas come passaggio della materia prima naturale al piatto visto come oggetto culturale. Cfr. A.J. Greimas, “La zuppa al pesto o la costruzione di un oggetto di valore”, in Del senso 2, Milano, Bompiani, 1984, pp. 151-163.

7 Su questo tema, trattato con una sottile ironia, cf. Paulius Jevsejevas, “Loving Nature”, Actes Sémiotiques, 123, 2020.

8 L’architetto e urbanista catalano Ignasi de Solà-Morales definisce i terrain vagues “luoghi esterni, strani luoghi esclusi dagli effettivi circuiti produttivi della città. Da un punto di vista economico, aree industriali, stazioni ferroviarie, porti, vicinanze dei quartieri residenziali pericolose, siti contaminati (...) aree dove possiamo dire che la città non esiste più”. Quaderns d’arquitectura i urbanisme, 212, 1996, pp. 38-39.

9 J.-M. Floch, Semiotica, marketing e comunicazione. Dietro i segni, le strategie, Milano, Franco Angeli, 1992.

10 J. Kosinski, Being There, San Diego, Harcourt, 1970. Il romanzo è stato portato sullo schermo con successo nel 1980 da Hal Ashby con l’interpretazione magistrale di Peter Sellers.

11 G. Clément, Giardini, paesaggi e genio naturale, Macerata, Quodlibet, 2013, p. 43.

12 Ibid.

13 Op. cit., p. 45.

14 P. Fabbri, “Supplemento a Claude Zilberberg”, Actes Sémiotiques, 123,2020, p. 1 https://www.unilim. fr/actes-semiotiques/6472.

15 Ibid.

16 Su questo argomento, cfr. C. Zilberberg, art. cit. p. 4.

17 Tra i molti testi scientifici che affrontano questo tema : S. Mancuso e A. Viola, Verde brillante, Firenze, Giunti, 2013 ; U. Castiello, La mente delle piante. Introduzione alla psicologia vegetale, Bologna, Il Mulino, 2019.

18 Les interactions risquées, Limoges, Pulim, 2005. Trad. it., Rischiare nelle interazioni, Milano, Franco Angeli, 2010.

19 Rischiare..., op. cit., p. 18.

20 Op. cit., p. 45.

21 La nozione di propensione viene elaborata da François Jullien per spiegare una delle caratteristiche dominanti della cultura cinese, in opposizione all’impronta puramente casuale e teleologica propria del pensiero occidentale : “Essa allude a un dispiegamento che non è determinato da alcuna perdita né è segnato da alcuna vocazione (…) tant’è vero che è orientato solo dal modo in cui la situazione è inclina a “pendere”, dal mondo in cui ne induce il prolungamento e ne produce il rinnovamento”. F. Jullien, Essere o vivere : Il pensiero occidentale e il pensiero cinese in venti contrasti, Milano, Feltrinelli, 2016, p. 21.

22 Ringraziamo qui Eric Landowski per le sue indicazioni.

23 Rischiare, op. cit., p. 40.

24 Rischiare, op. cit., p. 60.

25 Ibid., p. 46.

26 Rischiare, op. cit., p. 75.

27 Cfr. Rischiare, op. cit., p. 77, n. 5.

28 H.D. Thoreau, Walden. Vita nei boschi, Milano, Rizzoli, 1988, p. 165.

29 Devo questo prezioso spunto di ricerca a Eric Landowski.

30 E. Landowski, “Politiques de la sémiotique”, Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio, 13, 2, 2019, p. 15.

31 Ci riferiamo ovviamente a A.J. Greimas, De l’Imperfection, Périgueux, Fanlac, 1987.

 

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Mots clefs: aspectualisation, manipulation, régimes d’interaction, plante, syntaxe interactionnelle.

Auteurs cités : Gilles Clément, Maria Giulia Dondero, Jean-Marie Floch, Algirdas J. Greimas, Paulius Jevsejevas, François Jullien, Eric Landowski, Gianfranco Marrone, Henry D. Thoreau.


Plan:

Introduzione

1. Un inquadramento generale

1.1. “Natura e cultura”

1.2. Orti, giardini e altri terreni

2. La pratica del giardiniere : una pluralità di forme dell’interagire

2.1. L’operare e i suoi limiti

2.2. Una sintassi dello scambio

2.3. Sentire l’altro

2.4. Niente è mai garantito

2.5. Agronomi e agrofili

3. Temporalità e giardinaggio : dall’attesa alla sorpresa

 

 

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